Non vi è stata, per molti degli attuali anziani, una reale
possibilità se non per qualche raro autodidatta di aprirsi
alle nuove idee, ai problemi emergenti, restando così impotenti
di fronte all'incalzare dei nuovi modelli culturali e nei
confronti dei continui e tumultuosi cambiamenti sociali. Si
tratta di un modello di società, il nostro, notoriamente finalizzato
ad una produzione crescente e continua, basato oltre che su
questo su valori come l'efficientismo, il carrierismo, il
giovanilismo e l'avvenirismo, dove il metro di giudizio più
comune si fonda su ciò che uno ha, piuttosto che su ciò che
uno è, ed è altrettanto noto che l'anziano pensionato di solito
è colui che ha di meno. È evidente, inoltre, che l'avvicinamento
dell'adulto alla settima decade della vita conduce inevitabilmente
verso una doppia crisi: quella postparentale, come abbiamo
visto, e quella del pensionamento, aggravata anche dalle passate
spinte sindacali verso un abbassamento dell'età produttiva,
fatta eccezione per alcune recenti proposte di segno contrario.
La condizione adulta, di conseguenza, va verso una graduale
restrizione, per la presenza di una condizione giovanile sempre
più protratta nel tempo (fino al trentesimo anno di età, e
oltre) e di una condizione anziana che si è andata abbassando
negli ultimi anni, come abbiamo appena sottolineato,facendo
emergere una particolare situazione socioeconomica che consente
all'adulto, ben pagato, di mantenere contemporaneamente fuori
dal ciclo produttivo giovani e anziani. Ecco allora emergere
le contraddizioni di questa società in progresso: alti livelli
di benessere e crescenti aliquote di emarginazione, massimo
tasso di efficientismo e spreco di esperienze individuali.
In particolare, la disfunzionalità dell'anziano rispetto al
sistema non è un fatto accidentale, non voluto e pertanto
facilmente eliminabile, bensì la fredda programmazione di
un evento che è deciso ed accettato socialmente, in quanto
i crescenti livelli di benessere esigono che nella corsa al
successo i ritardatari paghino il costo con l'esclusione.
Anzi, è proprio questo evento che ne permette altri come
l'accesso al ciclo produttivo riservato ai giovaniadulti,
la concorrenza spietata e la selezione naturale. In una parola,
l'esclusione degli anziani consente una quota maggiore di
fruizione sociale agli adulti ed ai giovani più dotati o più
fortunati. In questo contesto la situazione degli anziani,
oltre che corrispondere ad una assoluta marginalità, ha ben
poche speranze di essere cambiata dal suo interno: "uno degli
aspetti più disperati della situazione dei vecchi diceva Simone
de Beauvoir è la loro impotenza a modificarla". La domanda
che sorge spontanea, a questo punto, riguarda il particolare
stato dell'anziano dopo il pensionamento e può essere formulata
nel modo che segue: la terza età equivale a perdita di ruoli?
Probabilmente si perchè la nostra vita acquista significato
anche per i ruoli che siamo chiamati a ricoprire nella comunità
di appartenenza e comunque nella vita sociale. E ciascun ruolo
è tanto più significativo quanto più ampio è il riconoscimento
che gli viene assegnato dal contesto sociale. È necessario
tenere sempre presente, a questo proposito, che alcuni ruoli
sono fondamentali nel determinare il tipo di integrazione
personale e sociale e che nella società attuale i criteri
predominanti intorno ai quali si costituiscono i ruoli fondamentali
sono quelli economici e familiari, per cui, se si vuole mantenere
positivamente il concetto di sè nelle varie età e fasi della
vita è necessario che l'autoimmagine sia socialmente accettata
nei suoi ruoli da gruppi di riferimento che riconoscano tali
ruoli e attestino la bontà dell'autoimmagine.
Ora l'uomo nella sua anzianità ma forse fin dal pensionamento
che non sempre può essere identificato con l'anzianità viene
a perdere molti ruoli. Innanzitutto perde il ruolo di lavoratoreproduttore,
significativo e fondamentale nella società consumistica, anche
se vi sono spesso nette differenze in rapporto ai vari tipi
di lavoro e di reddito. Infatti, il contenuto "etico" che
da sempre siamo stati abituati ad attribuire al lavoro si
è talmente dilatato (e maggiormente quanto più il lavoro è
gratificante) che quando, per invalidità o vecchiaia, esso
viene irrimediabilmente perduto, nascono spesso gravi traumi
psicologici derivanti da un profondo senso di inutilità sociale.
Inoltre va osservato che il ruolo di genitore (madre e padre),
assunto in modo naturale e quasi inconscio, determina all'interno
della famiglia una scala di valori di cui l'importanza è a
tutti nota, per cui la perdita del ruolo decisionale e di
guida nella famiglia, sebbene si instauri gradualmente, è
avvertita spesso con grave senso di frustazione.
Va rilevato che non è sufficiente a compensare questa perdita,
la funzione subalterna, spesso delegata e di comodo, in quanto
non riconosciuta in genere come educativa in senso lato, ma
solo come funzione di supporto al nucleo familiare. Non parliamo
poi dei ruoli economici e sociali nell'ambito comunitario,
che vengono perduti con il pensionamento in maniera tanto
più drammatica quanto più erano in precedenza gratificanti.
Il problema quindi dell'adattamento alla vecchiaia ed al pensionamento
è strettamente collegato all'esistenza di uno "status" e di
ruoli nuovi che siano chiaramente e positivamente definiti,
attraverso i quali le persone possano trovare una sostituzione
per le loro attività ed interessi precedenti. Succede invece
che la perdita di ruoli viene per lo più aggravata nell'anziano
dal fatto che ad essi non ne vengono sostituiti di altri.
Lo stesso ruolo di anziano, se così lo possiamo definire,
è un ruolo vuoto, nel senso che le aspettative nei suoi confronti
da parte delle diverse componenti sociali sono vaghe, se non
inesistenti, e quindi con scarse possibilità per l'individuo
di costruire un'immagine positiva di sè. È infatti l'inconsistenza
e l'ambiguità dei ruoli permessi socialmente all'anziano che
ne rende facile l'emarginazione. In linea generale, dunque,
più che di un ruolo vuoto, si tratta di un ruolo con assenza
di ruolo, di un ruolonon ruolo. La conseguenza di ciò è spesso
una caduta di "status", più o meno evidente, contrastando
tale processo con quanto avveniva nella società contadina,
in cui il prestigio di un individuo poteva addirittura crescere
con l'aumentare dell'età, mentre oggi l'ossequio per tutto
ciò che è nuovo porta a trascurare in ogni campo l'immagine
dell'individuo anziano.
E la causa di tutto ciò si situa a monte del momento in
cui la perdita di ruolo si verifica. In realtà è discutibile
già il trattamento che la società infligge alla maggioranza
dei suoi membri fin dal tempo della loro giovinezza e maturità;
la sorte che essa riserva, poi, a coloro che sono diventati
inattivi, dimostra che li ha sempre considerati in precedenza
come un bene materiale, da cui ha cercato di ottenere il massimo
profitto. Non si può non essere d'accordo con la de Beauvoir
quando afferma che un uomo può rimanere tale nella vecchiaia
solo quando è stato sempre trattato da uomo. C'è da chiedersi,
a questo punto, se il futuro degli anziani è proprio senza
speranza, se nulla è possibile fare per cambiare questo stato
di cose, se non sono possibili, oggi, nuovi ruoli sociali
nei quali gli anziani possano mantenere quella dignità di
cui godevano da adulti. D'altra parte, la modifica dei ruoli
non dovrebbe essere considerata di per sè un impoverimento
dell'individuo, ma piuttosto uno sviluppo logico della vita,
in quanto lasciare un ruolo significa fondamentalmente aver
assolto il proprio compito.
Ed è proprio in questa prospettiva che può e deve inserirsi
la geragogia. Se infatti il processo di invecchiamento si
presenta come un processo di trasferimento in un ruolo che
si caratterizza per l'assenza di qualsiasi ruolo, nessun utile
adattamento è possibile per l'individuo che diventa anziano.
Per poter affrontare con precisione e senza ambiguità questo
argomento l'insegnamento geragogico deve prefiggersi e percorrere
alcune direttrici operative che tengano conto della natura
umana e delle dimensioni sociali della vecchiaia. L'uomo è
di per sè pervaso da un'incommensurabile energia vitale che
lo spinge ad una continua ricerca della felicità, di cui la
vita, e non la morte, è il metro di misura; ogni uomo è irripetibile,
nel senso che Qualcuno lo ha pensato diverso da ogni altro
essere umano. La diversità è dunque la sua naturale espressione,
mentre socialità ed organizzazione agiscono soltanto come
complemento della sua personalità. Dunque il sostanziale desiderio
di uguaglianza tra tutti gli esseri deve essere integrato
nella consapevolezza che la diversità significa ricchezza
sociale ed arricchimento globale, e che il desiderio di uguaglianza
equivale a momento di confronto e di integrazione reciproca.
Il lavoro non può essere l'unico criterio con cui l'uomo misura
la sua intima essenza, anche se è una necessità umana, ricca
di dignità e significato. Infatti l'essenza umana si caratterizza
per un impegno sociale in cui fatica, saggezza, riflessione,
cultura, lavoro manuale e mentale, giovinezza e vecchiaia
apportano un loro specifico contributo.
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