Vi sono almeno tre presupposti sui quali è importante
soffermare inizialmente la nostra attenzione, per poter inquadrare
la dimensione attuale del fenomeno correlato all'invecchiamento
delle popolazioni e le conseguenti implicazioni geragogiche.
Il primo è rappresentato dall'indice di dipendenza relativa
(vale a dire il rapporto tra la popolazione oltre 65 anni
e la popolazione adulta) che misura quanti anziani vi sono
ogni 100 adulti. Secondo questo indice, che all'inizio degli
anni novanta era del 20,8% ed attualmente è arrivato al 24%,
gli anziani rappresentano 1/41/5 della popolazione adulta,
apparendo altresì evidente che il rapporto tra coloro che
sono usciti dal circuito lavorativo (anziani) e coloro che
producono (adulti) tende a crescere nel tempo.
Il secondo presupposto è espresso dal progressivo allungamento
della vita media, che riflette sostanzialmente un generale
aumento della "longevità", anche se qui preme sottolineare
che tale aumento influenzerà sensibilmente, nel futuro, le
classi di età oltre i 75 anni: i vecchigiovani cresceranno,
cioè, meno dei vecchivecchi, che nel prossimo quinquennio
registreranno incrementi dell'ordine del 40% rispetto al 28%
previsto per l'intera fascia di età oltre i 65 anni. Ciò significa
non solo che avremo a che fare con una terza età più numerosa
e più vecchia, ma anche che ciò modificherà sensibilmente
sia la struttura della popolazione che la natura dei bisogni
di tale età. Il terzo presupposto riguarda la speranza di
vita all'epoca del pensionamento (attualmente fissato in media
a 60 anni), limite che è in continuo accrescimento nei due
sessi. Già nel 1970, in Italia, un maschio poteva sperare
di vivere altri 16,7 anni, una donna 20,2; questo dato,connesso
ovviamente all'aumentata longevità generale, deve farci riflettere,
in quanto ci pone di fronte ad una situazione in cui il pensionato
rischia il termine non è eccessivo di vivere un considerevole
numero di anni in tale "status" con tutti i problemi esistenziali
e di ruolo che ciò comporta.
Nel futuro, quindi ma è un futuro che stiamo già in parte
vivendo un numero sempre maggiore di persone riuscirà ad invecchiare
in modo sempre migliore, cioè in condizioni fisiche e psichiche
meno compromesse, ma con la previsione di vivere da pensionati
per un periodo più lungo della vita rispetto al passato. D'altra
parte non è concepibile che i nuovi anziani vivano questo
considerevole periodo senza un ruolo sociale ben preciso,
ricco di contenuti valorizzanti, perchè è risultato che l'uomo
senza ruolo è inevitabilmente destinato alla marginalità e
quindi all'isolamento. Spetta quindi a noi gerontologi, prima
che ad ogni altro, domandarci quale ruolo o funzione possa
essere prospettabile per l'anziano in questa società che muta
così celermente.
L'esame della realtà sociale attuale dimostra, infatti,
che in essa si trovano intimamente inseriti molteplici meccanismi
emarginanti. Le tumultuose trasformazioni sociali degli ultimi
decenni hanno portato in sè, accanto a indubbi benefici, anche
effetti sfavorevoli che si sono ripercossi soprattutto sulle
fasce di popolazione più deboli, tra le quali vi sono tipicamente
gli anziani. Il radicale cambiamento dell'economia, negli
anni del dopoguerra, ha accentuato sempre più il passaggio
da un tipo di lavoro prevalentemente agricoloartigianale a
quello di tipo industriale. Ha segnato, cioè, la fine di un
lavoro legato in buona parte alla capacità inventiva ed all'iniziativa
individuale e lo ha sostituito con un lavoro spesso ripetitivo,
monotono, meccanizzato, vincolato maggiormente ad un concetto
esasperato di produttività e di efficienza e, molto spesso,
a quello di carriera, concezione la quale assume inevitabilmente
un significato competitivo soprattutto a livello sociale:
maggiore efficienza produttiva, maggiore ricchezza, maggiore
consumo di beni, maggiore valore e prestigio nella scala sociale.
Non esiste più un lavoro in cui abbia fondamentale importanza
l'esperienza acquisita durante un lungo tirocinio, ma solo
la conoscenza operativa e molto approfondita di pochi dettagli
tecnici e che, quindi, non ha bisogno di una trasmissione
"sapienziale", ma solo di acquisizioni metodologiche che,
peraltro, sono soggette a cambiare continuamente e rapidamente.
In questo contesto l'esperienza, patrimonio primario dell'anziano,
può anche sopravvivere e continuare ad essere un valore, ma
solo nella proporzione in cui venga continuamente sostenuta
ed arricchita dall'aggiornamento e da una adeguata riqualificazione.
Una delle conseguenze dirette di questa trasformazione a livello
produttivo è stata, com'è noto, l'urbanizzazione massiccia,
cioè la concentrazione di molti lavoratori in aree limitate,
là dove sono maggiormente raggruppate le industrie e, quindi,
i posti di lavoro.
Questa migrazione dalla campagna alla città, con tutti i
problemi economici e lavorativi connessi, da una parte è risultata
sicuramente spersonalizzante rispetto ai rapporti interindividuali
ed alla tipologia della vita quotidiana, dall'altra ha contribuito
ad accelerare un certo rivolgimento della atavica struttura
familiare. Già dai primi inizi della rivoluzione industriale
si era andato incrinando, come è noto, l'impianto patriarcale
della famiglia, tipico della civiltà contadina, basato fondamentalmente
sulla ponderatezza,l'esperienza e l'autorità del patriarca,
che si assumeva il compito di trasmettere il suo patrimonio
di conoscenze ai discendenti (figli e nipoti), attuando, per
certi versi, anche un rapporto di tipo educazionale. Sotto
l'influsso di notevoli e molteplici spinte come quella economicoindustriale
la famiglia è diventata gradualmente "nucleare", legata cioè
principalmente al rapporto di coppia, frequentemente condizionata
da problemi economici, di alloggio e dalla conseguente necessità
per entrambi i coniugi di lavorare per far quadrare il bilancio
della loro nuova comunità.. All'interno di questo giovane
modello familiare, la coppia anziana o il nucleo familiare
anziano (che molto spesso risulta di un solo membro), non
è più il perno della famiglia, come un tempo, ma solo uno
dei componenti parentali che, nella più favorevole delle ipotesi,
vivono come ospiti nella casa di un figlio.
Tale tipo di famiglia, sempre in maggiore espansione, non
è in grado di proteggere l'anziano che ne avesse bisogno e
solo raramente è nella possibilità di accoglierlo quando si
trovi a vivere solo ed abbisogni di assistenza. Inoltre la
rigida strutturazione della divisione sociale del lavoro (fase
giovanile di preparazione, spesso prolungata; la cosiddetta
età produttiva, in cui è richiesta la massima prestazione
all'individuo; l'età del riposo, in cui l'individuo viene
messo in quiescenza) ha determinato, negli ultimi decenni,
una dilatazione crescente del fenomeno pensionistico. Il pensionamento
rappresenta, di per sé, la creazione di un ruolo improduttivo
economicamente e socialmente imposto, secondo norme giuridiche
precise, anche se il passaggio da individuo attivo ad inattivo
è parzialmente aperto, molto spesso, ad una scelta da parte
del lavoratore stesso che nel recente passato ha cercato di
anticipare, il più delle volte, il collocamento a riposo.
Al di là di ogni considerazione economica (aspetto certamente
non secondario), in relazione alla tendenza, appunto, verso
forme sempre più diffuse di pensionamento anticipato, affermatasi
negli anni trascorsi, possiamo sostenere, con Cesareo, che
non è assurdo ipotizzare che se l'età della "quiescenza" non
verrà adeguatamente innalzata, "mentre d'altra parte la durata
media della vita continuerà a prolungarsi, coloro che si troveranno
nella terza età costituiranno una percentuale sempre crescente
che finirà certamente col diventare maggioranza, anche se
non è difficile prevedere che, ciononostante, gli anziani
continueranno purtroppo ad occupare posizioni socialmente
marginali". Infine è d'uopo fare un accenno al grado di istruzione
tra gli anziani di oggi che solo nel 3% sono in possesso di
un diploma di scuola media superiore e, quindi, sono provvisti
per lo più di un bagaglio culturale inadeguato che contribuisce
notevolmente alla loro esclusione dalla vita sociale. Se infatti
per cultura intendiamo l'acquisizione di quegli strumenti
che permettono all'uomo di prendere coscienza di se stesso
e dei suoi rapporti con gli altri, e quindi di interagire
continuamente con la società, mantenendo comunque capacità
di valutazione e di giudizio al di là di ogni possibile condizionamento,e
se accettiamo che una tale formazione culturale non possa
provenire solo dall'esperienza, ma anche da un "curriculum"
di istruzione adeguata, allora è possibile ancora accogliere
il concetto che la vecchiaia può essere meglio affrontata
da chi possiede un adeguato patrimonio di cultura. E' grazie
a questo, infatti, che l'uomo decide, agisce, può mutare gli
orientamenti della sua vita, ad ogni età.
Ed è grazie alla formazione culturale che possiamo capire
la società in cui viviamo e i diversi ruoli che ad ogni età
siamo chiamati a ricoprire. È il nostro patrimonio culturale
che ci consente di valorizzare ogni giorno non solo il nostro
lavoro, ma anche il tempo libero e che ci consente di entrare
da protagonisti nelle dinamiche della vita sociale. La sua
inadeguatezza, viceversa, emargina a qualunque età. E delle
molte persone che oggi vivono la loro vecchiaia, la grande
maggioranza non ha avuto, purtroppo, il privilegio di acquistare
in misura sufficiente un tale patrimonio. Alla base di questa
carenza sta una miriade di fattori: tra questi il ceto sociale,
l'antica indigenza della classe operaia e contadina, le necessità
materiali e lavorative contingenti del primo periodo postbellico,
la grande crisi economica, la particolare gerarchia familiare
che ha spesso penalizzato in questo senso la donna, i problemi
inerenti alla ricostruzione dopo il secondo conflitto mondiale.
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