Nelle cartelle cliniche di qualche decennio fa era più frequente
rispetto ai nostri giorni che il decesso di avi e proavi fosse
attribuito tout court alla vecchiaia. Nel rileggere le storie
di allora è facile scoprire, infatti, che gli ascendenti morivano
con una discreta frequenza per senectus, locuzione questa
che sicuramente serviva a nascondere spesso l'ignoranza sulla
causa di morte, ma che, comunque, lasciava trapelare anche
un particolare atteggiamento culturale. La domanda che si
pone alla nostra attenzione, come si è posta a quella degli
studiosi di ogni epoca, riguarda l'esistenza o meno di una
morte per vecchiaia sul piano del riscontro pratico, più che
su quello speculativo.
Da questo secondo punto di vista, infatti, può risultare
relativamente facile definire la morte naturale come il fenomeno
che conclude un ciclo vitale geneticamente determinato ed
esprime l'estremo punto di arrivo dell'invecchiamento "fisiologico".Quest'ultimo
può essere considerato, a sua volta, come il progressivo deterioramento
delle capacità omeostatiche e di adattamento all'ambiente
in funzione di un solo fattore, quello cronologico. Per tale
motivo l'invecchiamento "fisiologico", o normale, può essere
detto anche monofattoriale perchè comprende quel complesso
di modificazioni morfologiche e funzionali, di tipo involutivo,
che intervengono nell'individuo adulto per la sola azione
del fattore tempo, dovute cioè al progredire dell'individuo
nella sua età cronologica.
Ma tornando al quesito iniziale sulla morte per senectus
possiamo rilevare che sul piano statistico la sua frequenza
è affatto trascurabile e che l'uomo d'oggi muore sì nella
vecchiaia, anche avanzata, ma non di sola vecchiaia in quanto
nell'età inoltrata aumenta la morbilità generale in conseguenza
del fatto che acquistano maggior peso ed importanza fattori
eziopatogenetici del tutto irrilevanti in età giovane e adulta.
Va aggiunto, inoltre, che parallelamente all'aumento degli
eventi morbosi si registra generalmente, nell'età senile,
un abbassamento della "soglia letale" di tale entità che basta
talora una malattia del tutto modesta, e in altra età innocua,
per provocare la morte del soggetto.
Questo tuttavia non esclude, come abbiamo già osservato,
che sul piano dottrinario si possa ipotizzare la possibilità
teorica di un "invecchiamento fisiologico" o "naturale" che
decorra cioè senza la sovrapposizione di elementi patologici
ambientali sino ad una fine fisiologica della vita, sino a
quella morte naturale che conclude, ad esempio, la longevità
potenziale, corrispondente alla massima durata della vita
in una determinata specie. Tale massima sopravvivenza, quindi,
può definirsi come quella età che pochi individui di una popolazione,
i più longevi appunto, sono in grado di raggiungere, al riparo
dalle influenze ambientali, sulla base dei caratteri geneticamente
determinati e peculiari di quella data specie.
È evidente che l'invecchiamento di questi soggetti privilegiati
dovrà decorrere in modo normale o naturale attraverso quel
complesso di modificazioni morfologiche e funzionali, ovviamente
di tipo involutivo, che sono dovute alla sola azione del tempo,
cioè al progredire dell'individuo nella sua età cronologica
secondo un modello monofattoriale di senilizzazione. In sostanza
questo tipo di invecchiamento, definito anche come primario,
è un fenomeno universale che rispecchia unicamente gli effetti
avversi del trascorrere del tempo, è considerato intrinseco
all'organismo ed è determinato da fattori ereditari o congeniti.
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