di
Rita Farneti
Il silenzio
porta la mia parte di notte
ed un mattino senza giorno.
Sola
incontro solitudine
consapevolmente smarrita
(liberamente rielaborato da Emily Dickinson)
Prendersi cura di un familiare anziano e malato espone il
caregiver* al rischio di compromissione della propria salute
psichica e fisica.
In quest'ambito alto è il consenso della letteratura
che sulla relazione di cura dell'anziano ha indagato (Albert
1996,Bury 1982,Cohen -Mansfield 2000,Globerman 1997,Hasselkus
2007).
Per Engelhardt, "la medicina ", avendo "a
che fare con persone (
) non mira al mero prolungamento
della vita biologica. Viene praticata per posticipare la morte,per
prevenire e alleviare l'infermità e la deformazione,per
curare le malattie, per migliorare le capacità biologiche
e psicologiche e per lenire le sofferenze delle persone. E'
impegnata nel loro interesse".
Impegnarsi, dunque , nell'interesse del malato non si limita
alla cura della malattia ,ma pone l'accento soprattutto sulla
partecipazione empatica alle difficoltà del paziente,
sulla comprensione di bisogni impliciti ed espliciti ( met
e unmet needs) e su una rispettosa e giusta distanza fra soggetti.
Nel prendersi cura di un malato affetto da demenza, soprattutto
se privo di autonomia ed autosufficienza , magari anche molto
vicino all'ultimo stadio dell'esistenza , appare assolutamente
legittimo favorire il comfort del corpo sofferente .
Poiché nel malato la capacità di esprimere
emozioni in grado di essere ancora percepite e comprese diminuisce
gradualmente ,il corpo diventa soggetto nella relazione con
il familiare ed oggetto di una mente altrove .
Si struttura uno scambio comunicativo nel quale aspetti non
verbali lentamente sostituiscono verbalizzazioni.
Chi assiste - spesso un familiare - avverte il prendersi
cura sempre più influenzato da defaillances in un apparato
cognitivo inesorabilmente compromesso (nell'assistito )dall'avanzare
della malattia : l'impegno soccorrevole ad occuparsi dei frammenti
di un Sé (anziano) devitalizzato dalla demenza è
permeato da difficoltà.
E' un complesso e continuo lavoro di messa a fuoco attraverso
il quale si acquisisce giorno dopo giorno un' ulteriore consapevolezza
emotiva : la relazione col malato è attraversata dalla
dimensione soggettiva che la malattia assume per il familiare
curante.
Il prendersi cura diventa dunque sempre più coinvolgente
: chi assiste prova sentimenti non sempre agevoli da decifrare
che attengono alla relazione col familiare e alle emozioni
collegate alle trasformazioni presenti giorno dopo giorno
nella persona affetta da demenza.
*Caregiver è utilizzato nell'accezione di familiare
che assiste
Ne è toccata la comunicazione che il familiare costruisce
con il proprio assistito perché si spezza un senso
di corrispondenza fra la rappresentazione del proprio caro
e presenza reale del malato .
La relazione fra chi assiste e chi è curato testimonia
della coerente incoerenza innescata dalla debacle cognitiva
causata dalla malattia.
La demenza ,quindi, in qualche modo sconvolge schemi consolidati
e spezza un senso di continuità nella costellazione
familiare che in passato aveva garantito significatività
negli affetti, stabilità nei ruoli , congruenza nelle
reciproche comunicazioni e relazioni .
Le rappresentazioni della malattia - e le continue modifiche
che la stessa causa - segnano un percorso nel quale familiare
ed assistito appaiono trasformati in una coppia nuova , deprivata
della possibilità piena di accedere a spazi d'intimità
, di autonomia , a tempi di condivisione di un mondo da ricordare
e di un futuro da progettare.
In qualche modo si potrebbe definire una relazione indementita,poiché
il malato ancora comunica col proprio familiare,ma ciò
avviene sempre più frequentemente attraverso i sintomi
della malattia.
Il caregiver vive una relazione con un familiare affettivamente
riconosciuto e al tempo stesso disconoscibile perché
imprigionato in un corpo noto ed ormai troppo malato .
La percezione che la coppia ( assistente-assistito) si sia
tramutata in un triangolo ,con vertici simbolici rappresentati
da assistente assistito e malattia , impegna sempre più
il familiare ad assumersi l'onere di una separazione (reale
e simbolica al tempo stesso ) da chi si è conosciuto
e amato.
Il tormento di doversi separare si riassume nell'incognita
di un futuro impensabile e di un presente doloroso , nello
sguardo e nell'ascolto, in un'amorevole tenacia a proteggere
quella briciola di esistenza,anche se della vita non ha più
le vivide proprietà e poco ,dunque, resta al giorno.
Occorre affrontare quella morte già annunciata (da
molteplici piccole morti presenti ) nella giornata della persona
ammalata e tollerare il vuoto partorito dalla sofferenza nel
prendere commiato da un corpo sempre più consunto .
Nel familiare che si trova ad assistere fino all'ultimo un
proprio caro la percezione dell'approssimarsi di un abbandono
né rinviabile né negoziabile intinge di tristezza
il contatto col malato.
Occorre mettere forse un bavaglio ad una scomoda verità
: il curare si sta confermando arma ormai spuntata nella guerra
contro la malattia.
Annodare fili di speranza alimenterebbe magari l' illusione
di accampare ancora diritto di proprietà sul tempo
della vita e sulla possibilità di poterlo vivere insieme
al malato , allontanando ansie di distacco ed angoscia di
morte.
Non solo una morte anticipata da un corpo sfinito e da una
mente altrove ,in grado di snidare un dolore muto, ma soprattutto
pensieri di morte che mettono in contatto con un dolore latente,
inafferrabile e crudele al tempo stesso perché della
persona amata ancora manteniamo la spina di una rappresentazione
in carne ed anima .
E' un racconto complesso,narrato da interlocutori reali e
immaginari, in quel punto dell'esistere in cui il corpo del
malato scandisce le inevitabili sequenze di separazione ,
anticipa l'incontro con la morte reale ed evoca in chi assiste
il fantasma della propria morte .
Comunicare l'un l'altro traduce la sensazione di "evocare
un significato impossibile da percepire".
La consapevolezza dell'incontro con la morte ci porta simbolicamente
al di fuori del ticchettio del tempo, nella realistica presa
d'atto dell'impossibilità di elaborare un progetto
nel futuro perché "morire significa anticipare
un vuoto ".
Età avanzata ed acciacchi paiono spesso interpretati
dal senso comune come qualcosa che procede di pari passo con
qualcosa d'altro.
La fase della senescenza è addirittura ipersemplificata,
anche brutalmente, come l'ultimo periodo della vita,ricco
per lo più dell' insoddisfacente offerta di frutti
vizzi o poco appetibili.
Offrirebbe un'immagine della vecchiaia di ognuno potenzialmente
meno angosciante il mettere la morte tra parentesi(bracketing)
,non considerandola più della vita il naturale , franco
e affrancante epilogo?!!?
L'illusione indomabile di voler essere ancora figli di un
tempo di vita (nella prospettiva di vita del proprio genitore)
cede il passo ad una duplice presa d'atto :l' impossibilità
di costruire un progetto di futuro insieme ed il costante
impegno di assumere un ruolo parentificato in un tempo nel
quale la relazione sembra, come il corpo del genitore malato,
perdere ogni vitalità.
Si legge spesso il non più perché poche sono
le parole per l'ancora.
Dovremo accettare di avere un genitore interno da noi amato
ed al quale poter fare riferimento nelle paure e nel bisogno
ed un genitore reale ,così come la malattia lo sta
consegnando , necessitato di cura, attenzione e ,forse, dedizione.
Questa inversione di ruoli ,stravolgendo schemi consueti
e consolidati dalle rappresentazioni della continuità
nell'esistenza dell'uno nell'altro , evoca un futuro nel quale
anche la morte farà parte della nostra vita.
Di un grande battaglione che avanza immaginiamo le prime
fila , forse le seconde e le terze lentamente perdere quella
compattezza - che rendeva l'esercito temibile ed agguerrito
- e sguarnirsi nella conta di chi c'è ancora.
Per di più una malattia degenerativa a livello neurologico
,quale la demenza, s'insedia usualmente in un periodo (della
vita) nel quale i figli possono avere già varcato il
limite assegnato alla metà dell'aspettativa di vita
.
Li costringe ad attardarsi nella rappresentazione ,forse
pensosa, di un loro meriggio ,magari inopportunamente troppo
avanzante.
Questo causa ansia, sgomento ,stress ed appella alle nostre
risorse interiori perché sarà necessario accettare
nel profondo la temporalità della nostra ed altrui
esistenza per riconoscere la perdita e rielaborare il lutto.
Riacquisterà significato una vita che include al suo
interno la morte.
E' un qualcosa che permette sintonia con la persona malata
, anche sincronia nella cura , lenimento nel dolore,comprensione
nella sofferenza ed accompagnamento alla morte.
Un equilibrio delicato d'incontri quotidiani con necessità
e bisogni , conosciuti e forse più di una volta riconosciuti,
anche se all'apparenza già noti e scontati,un prendersi
cura soprattutto centrato sulla complessità della separazione
dalla persona (e non più dalla malattia).
E' un filo sottile, che può rivelarsi più tenace
di quanto possiamo immaginare.
"Vita e morte sono una cosa sola,come una cosa sola
sono il fiume ed il mare".
Solo la consapevolezza che le cose hanno inizio, durata e
fine permette di dirci,superato il tormento di doversi separare
e la difficoltà di lasciare andare, che "un raggio
di realtà" è prepotentemente entrato nella
nostra scena "per quel varco" che "la morte
ha aperto" .
Se la vita include la morte, è possibile accettare
il nostro oggi col malato, diventato più vero nella
natura di un mondo nel quale la fine apre alla verità
dell'inizio, perché ,mantenendo "un legame con
la persona perduta", nel dolore si modificherà"
il nostro modo di amarla" e si potrà imparare
a vivere non più con "la sua presenza reale ma
con la presenza della sua rappresentazione".
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