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Contingenze di tanatofobia nell'età senile Torna agli editoriali

di
Rita Farneti

Le cose che invano ho sospirato
e le cose che ho ottenuto, lasciamole passare.
Mi sia ora concesso di possedere veramente
soltanto le cose che ho sempre respinto e trascurato.
(Tagore)

Il pressoché costante e considerevole aumento ,negli ultimi lustri, della durata media dell'esistenza accarezza l' irrealistica speranza di conquistare sulla morte il potere della vita e delle proprietà del vivere , anche quando compromesse in un corpo malato.
Agli inizi del secolo scorso l'aspettativa di vita nella donna sfiorava a fatica la quinta decade,la mortalità infantile permaneva alta e l'età adulta finiva ,per lo più ,col coincidere con la vecchiaia.
Nella società patriarcale dei nostri avi usualmente si moriva in casa ed i morenti diventavano registi inconsapevoli di un rituale di accompagnamento ben diverso dall' interazione che ora si struttura fra morente , caregiver ed operatore sanitario.

Fra colui che sta morendo e colui che lo assiste diventa spesso delicato e difficile riuscire ad attivare una comunicazione emotivamente sostenibile ed umanamente sostenente :molte volte, infatti, accade che gli atti della cura sanitaria su un corpo malato scandiscano uno spazio ed un tempo "asettico"e si debba cercare altrove il significato più profondo connesso alla relazione di cura.
Potente si conferma l'influenza di una cultura tanatofobica che interpreta la morte scorno, limite e dileggio dell'umana avventura del vivere. Anche nei luoghi ove la morte sembra essere ormai di casa si tende,spesso inconsapevolmente,a rimuoverne il pensiero :poiché rappresenta l'incomunicabile si prova disagio,imbarazzo ed è difficile dare voce a ciò che si sente in modo naturale , umano. Capita anche di "agire" paura e sgomento, perché sotto la spinta di un tale distress l'io stenta ad adottare difese sintoniche in grado di fronteggiare angoscia, impotenza ed estrema infelicità.
Il contatto con i pensieri dell'altrui e propria morte oltrepassa dunque la nostra usuale capacità di contenere il pensiero dell'altro che soffre e che si sta separando da noi .Accade anche di avvertire la necessità di ripararsi ,adottando uno stile professionale talvolta permeato di distacco e controllo. Si accentua l'interesse per il corpo,per i parametri vitali :metaforicamente parlando manteniamo il bisogno di indossare il camice della razionalità.

Fino a che punto possiamo tollerare di essere contagiati da pensieri di morte?

Il pensiero dell'altro morente ci costringe a riflettere sulla nostra mortalità ,quindi sulla verità di un destino comune;spine al fianco ci trafiggono desolazione ed impotenza,l'alternarsi di ribellione e rassegnazione,il tentativo di dare un senso a ciò che si prova , anche ai frammisti,forse oscuri o poco consapevoli,sentimenti di inquietudine e colpa.

Certi di poter contare sugli indubbi vantaggi del farmaco,soccorsi da una tecnologia sempre più sofisticata e da una chirurgia quanto mai agguerrita nella lotta contro la malattia,corriamo il rischio di volerci affidare a tutti i costi a queste pallottole,sperando di sconfiggere la malattia,animati dalla speranza di un duello-possibile- con la morte, restituendo colpo su colpo.

La medicina è dottrina che cura e mira a ristabilire la guarigione in un corpo malato:difficile accettare di poter fallire ,ancor più desolante dover includere nella vita la morte. D'altro canto l'aspirare a diventare dominatori della propria vita,coltivando l'aspettativa di pianificare il nostro destino di esseri in vita,spingersi addirittura ad affermare "sono il padrone della mia vita che rappresenta solo un oggetto del mio essere soggetto d'esistenza" hanno permesso - ed ancora permettono - di negare l'insopportabile ansia legata alla consapevolezza della propria condizione di (esseri)mortali e dell'incombere della propria morte.

Paura,percezione di impotenza , tormento ed angoscia sono sempre più frequentemente sottaciuti,composti da una razionalità ragionevole,forse ancora una volta modalità difensiva rispetto a vissuti e rappresentazioni troppo - a lungo ed intensamente - perturbanti.

L'incremento di raffinate tecnologie in ambito sanitario agevola nel bypassare l'ansia del percepirci mortali,più fragili e sgomenti se esposti a malattia inguaribile. Consente inoltre di fare bracketing,di mettere fra parentesi la paura che scaturisce dalla percezione di morienza e dalla consapevolezza della perdita di uno status - l'essere soggetti con diritto di esistenza - per transitare nella ben più desolante condizione di oggetti predabili dalla morte.
Subiamo anche il peso di un'illogica logica,quella dell'equazione binaria che assegna alla giovinezza la salute ed alla vecchiaia,purtroppo,solo malattia e morte.

Nell'anziano la malattia viene percepita spesso come un cambiamento in negativo ,come un segnale che innesca sia l'ansia di dipendere dall'altrui ausilio sia la paura di perdere un legame affettivo a causa dell'altrui rifiuto.

In questo processo delicato e faticoso l'io stenta a riconoscere se stesso come ancora se stesso,a vivere (e viversi) il tempo dell'attesa ,a tollerare il silenzio, il vuoto,l'alienazione di un sé non più soggetto ma oggetto (di una vita) in scadenza. In presenza di malattie curabili ma inguaribili ancora di più,nel malato e nella famiglia,cresce il vissuto di impotenza,quasi si distilla,giorno per giorno, la percezione, a volte sconfortata,a volte realistica,che la malattia sia solo un segnale ed il malato diventi talvolta territorio ove la morte può aver già posto il proprio suggello .

Ed ora non mi aspetta altro che di morire,mormora l'anziano , attraverso i segni della comunicazione non verbale.
Questa è una comunicazione quasi insostenibile,poiché per il malato significa ammettere la propria personale sconfitta davanti alla morte,per l'operatore sanitario devitalizzare il significato terapeutico delle cure fino a quel momento prestate,per il familiare abbandonare il proprio caro al suo destino ed essere da lui abbandonato.
Durante la gestione della malattia inguaribile la famiglia viene direttamente e pesantemente coinvolta,sia quando il malato viene ricoverato sia quando viene dimesso. Questo può far percepire tutta la fragilità del legame col malato , perché i familiari avvertono il contatto con un interlocutore silente (la malattia)che appare depredarli di un vissuto del quotidiano( fino ad allora noto e scontato) attraverso una diversa scansione di tempi e spazi di autonomia ed intimità. Rappresenta esperienza disorientante perché slivella precedenti e consolidati equilibri. Questo spiega perché cosi' frequentemente la famiglia solleciti informazione, assicurazione, supporto per poter (e saper) essere vicina emotivamente al proprio familiare. II bisogno di informazione si riferisce anche alla complessiva percezione di benessere / malessere del malato,alla ricognizione dei tratti di stabilità/discontinuità nei segni vitali ma ,soprattutto,nel malato diventa indicatore del riconoscimento di se stesso attraverso il proprio corpo e/o del disconoscimento del proprio sè intrappolato in un corpo che sfinisce.

Il bisogno di rassicurazione e supporto nei familiari declina anche la necessità di uno scambio comunicativo congruente con le finalità curative del team specialistico, al fine di avere indicazioni chiare ,offerte con modalità emotivamente coerenti durante gli steps delle prestazioni sanitarie. Il bisogno di percepire una vicinanza emotiva col malato ,soprattutto nelle fasi finali della malattia, può invece confortare i familiari,alimentando la speranza di una separazione definitiva finalmente accettata. E' la percezione dell'incontro con una morte addomesticata, che ha perso parte della sua temibile potenza poiché ,tacitati i fantasmi, lenisce il senso di impotenza ,dilata il tempo dell'attesa ,rinsalda il legame e consola. Si avverte che la malattia può vincere,ma mai dominare completamente.
Ad un passo dalla morte il luogo della cura è rappresentato dall'incontro con un dolore sopito,con una paura che più non urge e permette dunque di fare spazio al silenzio dell'attesa.
Si accetta di morire in modo umano, forse sano,senza avanzare la pretesa di annullare condizioni intrinseche alla nostra esistenza, consolati da quanto Camus teneva a sottolineare :l'unica vera solidarietà fra gli uomini consiste nell'essere solidali davanti alla morte.

Bibliografia essenziale
J.Oyebode,Assessment of carer's psychological needs,Advances in Psychiatric Treatment,2003,9,45:53
E.Scabini, E se d'improvviso scomparisse la famiglia?Vita e Pensiero,2007,2,1:5

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