di
Rita Farneti
Nessuno ha mai raccolto
una nuvola dal cielo
per farne dono al vento
perché abbiamo un dire
che ci nega
il cuore della terra
Ritengo che la relazione di aiuto nella sua specificità
" empatica" si diversifichi rispetto agli obiettivi
che si propone un'azione di semplice consulenza per un'orientamento
, ad esempio, scolastico. Soprattutto con il paziente oncologico.
La comunicazione dell'esistenza di una patologia tumorale,
per il carattere di gravità e cronicità ,può
avere un effetto sconvolgente nel progetto di vita del paziente
e della sua famiglia,tanto da ipotizzare l'insorgenza , a
ridosso della comunicazione, di una sindrome neoplastica .
Intensità e durata dipendono dalla personalità
del malato, dall'età,dalle esperienze pregresse,dall'ambiente
con cui si relaziona il paziente ,dal tipo di tumore diagnosticato,dal
valore simbolico e reale dell'organo colpito.
A ridosso della comunicazione dell'esistenza di una neoplasia
il vissuto del paziente è permeato da un profondo senso
di panico,da stress,dalla sensazione di sconvolgimento del
proprio progetto esistenziale, dalla percezione disorientante
di un futuro amputato, monco e di trovarsi ad abitare un corpo
altro, improvvisamente e drammaticamente percepito sia estraneo
sia possesso della malattia La sensazione di avere un corpo
è incongruente rispetto alla sensazione di essere nel
proprio corpo, quello noto e di sempre, attraverso quei segnali
e quei confini che fino a quel momento lo avevano legittimato
e circoscritto con sicurezza
L'operazione di ri-conoscimento di un Io che abita un corpo
che stenta a riconoscere come proprio risulta ardua , dolorosa
e conflittuale. Non si tratta solo di comprendere da un punto
di vista cognitivo la possibile e spietata logica ,trasmessa
dal comune sentire, che attribuisce al cancro caratteristiche
di malattia incurabile e mortale ma anche di poter tollerare
l'incomprensibile presenza all'interno dei propri confini
di un Sé somatico vittima e di un Sé somatico
carnefice.
Il senso di stabilità ed affidabilità dei
propri oggetti interni -la base sicura attraverso la quale
hanno saputo comporsi e dispiegarsi le relazioni significative
interpretate nella percezione di essere un corpo abitato da
una mente in grado di pensarlo ed abitarlo -ci permette di
essere diversi ma non alieni a noi stessi attraverso i cambiamenti
nel ciclo di vita;meno facile è l'accesso alla rappresentazione
della morte o ,meglio, delle morti - morte biologica che contrassegna
tutta la razza umana , morte dell'altro e mia morte (che contempla
un io che guarda a se stesso come non più se stesso
)-.
L'angoscia,inevitabile, si esprime nel senso di estraneità
e costrizione dettato dalla condizione di essere nel mondo
senza appieno percepire di esistere davvero per sé
e per gli altri e dalle valutazioni sulla qualità del
sentirsi in vita ma non più in possesso delle proprietà
della vita,dunque desolatamente fuori dal continuum vitale
,il denso ed impalpabile flusso di energia esaltato dalla
percezione di fluidità , naturalità e pienezza
della vita
Il paziente non si sente più soggetto malato ma ,
piuttosto, oggetto della malattia ,desolatamente a brandelli
in virtù dello strappo che quest'ultima ha saputo infliggere
attraverso suoi caratteri di morte annunciata ed incombente.
Incertezza rispetto al(poter e saper) mantenere uno spazio
affettivo in seno alla propria famiglia, ma,soprattuttto,
incertezza rispetto al diverso ed inquietante significato
che il proprio Sé somatico acquista. Mentre si invoca
una guarigione che salvi ed annulli ogni pericolo, si cerca,
quasi contemporaneamente,di riconquistare la parvenza dell'esistere
nella quotidianità ,in uno spazio ed in un tempo,anche
simbolici, ove la malattia oncologica sempre più spesso
appare dettare un suo nefasto ed affatto negoziabile potere.
In fondo l'opera di medicalizzazione sulla quale la scienza
medica a tutt'oggi ha poggiato forza e speranza sembra solo
ed appena una traduzione razionale della lotta contro la morte,come
se l'homo sapiens , ulteriormente insapientito da millenni
di sua razionalità, riprovasse di fronte alla naturalità
e semplicità della morte tutto lo sgomento dell'infans,
di colui che non ha parole per l'indicibile, abbandonato,
tradito e consegnato alla impotenza più intollerabile.
Spesso si consegna un corpo estraniato dalla mente ,corpo
che invoca attraverso la modalità del prendersi cura-
gesti parole, atti,sensazioni,affidate a persone volta volta
diverse, con funzioni diverse, - la speranza e l'illusione
di poter essere restituito a se stessoE se l'operazione del
curare, come si rivela a brevissimo, dovesse risultare impossibile
almeno resti il prendersi cura come capacità di fornire
un ausilio emotivo , di vicariare dal punto di vista cognitivo
un io devastato dall'angoscia e dalla percezione di essere
già entrato nel tunnel della morte senza possibilità
di ritorno o di alcun patteggiamento efficace o anche solo
vagamente salvifico
Quasi la tragicità e serietà della patologia
tumorale obbligasse per il momento a mettere tra parentesi
(l'operazione del bracketing) angosce, dubbi ed interrogativi,
a farsi cosa fra le cose, per sostenere un terrore che viene
proiettato e ghettizzato nelle camere d'ospedale, luoghi anche
simbolici,ove si portano pezzi di corpo ed anche speranze
che appaiono andare in pezzi.
Gesti ,parole, atti della medicalizzazione da parte dell'operatore
sanitario possono connettersi ,a volte appena per frammenti,
con l'angoscia del malato.Il senso di frustrazione,depressione,ostilità
,rabbia verso l'ambiente , verso se stessi e verso la condizione
di malattia inguaribile sono scogli dai quali disincagliarsi
è problematico,soprattutto per il senso di solitudine
e di infinito sgomento che la persona prova di fronte alla
propria infermità ,fragilità e terminabilità:da
soggetto diventa oggetto e possesso di un nemico sempre più
potente.
Il supporto psicologico e terapeutico si traduce innanzitutto
nella possibilità di stabilire con il paziente una
relazione di comprensione empatica che gli offra uno spazio
sicuro nel quale sentirsi protetto dalla violenza delle emozioni,
riconosciuto , spazio nel quale possano essere accettati bisogni
di rassicurazione, ansie, paure, e salvaguardata la possibilità
di esprimere quanto sta provando e quanto lo atterrisce.
Il paziente oncologico ha bisogno di elaborare ,per quanto
gli è possibile, il trauma psicologico della diagnosi
di tumore,di acquisire elementi che gli consentano di rompere
l'equazione cancro=morte,trovando un progressivo adattamento
alla malattia:diventa prioritaria una relazione che sia in
grado di offrire aiuto e non una mera prestazione tecnica
e professionale.
A volte sembra che tutto ciò sia più facile
a dirsi che a farsi, presi nel gioco delle identificazioni
con la sofferenza globale, (quella che gli autori anglosassoni
amano definire total pain,uno stato di sofferenza così
intensa, densa che va oltre il dolore fisico),col senso di
impotenza e di rabbia che questa condizione ,anche solo rappresentata
prima di essere attraversata, genera in noi..In certi casi
ci si chiede se non sia più sano andare piuttosto che
rimanere e se l'aiuto che stiamo offrendo sia giusto o perlomeno
sufficiente, e non solo un qualcosa al quale solo noi stiamo
dando il nome di aiuto.
Capita di chiedere"quale aiuto
..quando l'aiuto
..quanto
aiuto?"
Credo sia difficile coltivare l'illusione che ragione, buon
senso e forza di volontà sappiano trasformarsi in lanterne
utili mentre ci addentriamo nello scuro di un bosco a noi
ignoto;in fondo amiamo restare ancorati ad una relazione di
aiuto costruita sulla linearità e sulla simmetria,
poco vissuta e giocata nell'hic et nunc..Può darsi
che questo serva a mettere a tacere sentimenti confusi,a padroneggiare
eventuali inquietanti rappresentazioni cognitive,a consolidare
convinzioni di un percorso di cura razionale ed insieme realistico,
adottando l'ottica di una scomposizione del problema, forse
un sezionamento ed una scelta, comunque, di priorità.
E ,magari, non va dimenticato che siamo noi i primi ad aver
bisogno di essere convinti della bontà ed efficacia
delle nostre azioni, soprattutto dei mezzi che scegliamo per
i fini che desideriamo raggiungere. Sentirsi sufficientemente
garantiti dal di dentro certo aiuta l'operatore a tollerare
ansie ed angosce, ma può anche rischiare di sbaricentrarlo
rispetto all'imprevisto e all' imprevedibile.
Soprattutto quando dobbiamo far lievitare all'interno della
relazione un'atmosfera che consenta al malato di riacquistare
senso di continuità e congruenza della propria esistenza
,per aiutarlo,ove possibile, a combattere in modo adeguato
e realistico il limite insito nel suo sentirsi a termine ,per
sostenerlo nel mantenere relazioni affettive ancora salde
e confortanti, per offrirgli un livello accettabile di qualità
della vita durante tutta l'esperienza di malattia.
In fondo si tratta di offrire al paziente un "io"
ausiliario con differenti funzioni( contenimento dell'ansia
, delle emozioni distruttive ed alienanti,rafforzamento della
capacità di comunicare , restituzione di senso ai legami,
agli scopi ed ai pochi obiettivi rimasti)Il mettere la malattia
fra parentesi va accettato come un tentativo di salvarsi da
una tempesta che coglie da tutti i lati(ed impreparati).Soprattutto
vanno accolti e contenuti vissuti di angoscia , impotenza,
rabbia, attingendo a quella parte più profonda di noi
che accetta di non avere risposte in anticipo o già
confezionate da esibire ad hoc, che sa farsi paziente e che
accetta il contatto,forse il contagio,del dolore senza percepirsi
troppo bisognosa di cure quando immersa nella paura e nell'inquietudine
che la rappresentazione della morte è in grado di evocare.
Non è possibile tenere a distanza il dolore, non
è possibile venire a patti con la morte,non è
possibile una relazione di aiuto che veda uno dei due interlocutori
mettere le mani avanti per evitare il contatto con la rappresentazione
di impotenza veicolata dalla condizione della persona ammalata
di cancro.
Pensare che tutte le azioni che si prefiggono di aiutare
aiutino davvero è tautologico Accettare di sbagliare
sembra essere una delle cose più difficili ,come accettare
di non essere sempre al massimo e,soprattutto, di avere pazienza
ed umiltà nel vedere e rivedere le proprie ed altrui
azioni ,magari soffrendoci anche sopra
.Spesso aleggia
una palese discrepanza fra fini prefissati ed obiettivi raggiunti;
si evidenzia nelle strutture sanitarie, dove la gestione delle
risorse non sempre coincide con l'ottimizzazione dei servizi,per
lo meno questi due concetti sul piano pragmatico dialogano
poco
L'azione di ascolto e di aiuto richiede il disvelamento
di bisogni,desideri ed aspettative, soprattutto una tollerabile
frequentazione con i propri ed una competenza comunicativa
che include anche capacità di autoanalisi ed autocontrollo.Nell'atto
della presa in carico non si può prescindere dalla
analisi e dalla riflessione che scaturisce dalla identificazione
con altrui paure ed altrui conflitti
I gruppi Balint e di auto-aiuto sono utili soprattutto per
questo :assolvono alla funzione di contenimento e rielaborazione
delle ansie, evitando la condizione di burn out.
La relazione con il paziente oncologico implica anche l'accettazione
per tempi limitati e attraverso modalità particolari
di un contagio psichico che la condizione di total pain attiva
in noi. La presenza di emozioni forti e contrastanti viene
spesso dal senso comune interpretata come elemento di disequilibrio
;in realtà capita ad ognuno di noi di avere paura di
non riuscire a padroneggiare i sentimenti e di temere di non
poter fruire al meglio di tutte le opportunità che
la vita potenzialmente offre,incluso il diritto di ripensamento.
La relazione di aiuto è un processo, nutrito dalla
reciprocità; l'azione di interpretazione , complessa
e delicata, richiede la capacità di saper dar vita
a tutti gli aspetti verbali e non verbali che contraddistinguono
la relazione stessa.
L'aiutare non può prescindere dal senso che assume
il disvelamento dei bisogni e delle paure dell'altro per noi
perchè ,mentre aiutiamo, attraverso il meccanismo della
identificazione prende spazio in noi la consapevolezza che
esistono nostre parti vivificate o ulteriormente danneggiate
dalla sofferenza e dal dolore dell'altro.
Evitare una performance tecnicistica ed adeguarsi sempre
più ad una relazione nella quale si è "centrati"
sull'utente - e dunque in grado di essere solleciti e comprensivi
- è piuttosto difficile,perché anche noi abbiamo
difese e resistenze.
Capita di sentir dichiarare :"certo sarà anche
così come tu dici...che quella persona si comporta
in tale maniera perché magari è in buona fede
ma
ho delle resistenze a pensarla così
faccio fatica"
Si è attivato un processo
relazionale che può presentare aspetti di confusione
e di contraddizione perchè il bisogno, non sempre consapevole
ed appieno esplicitato, di fondersi in un unico oggetto assolutamente
buono e salvifico e la consapevolezza amara di questa impossibilità,impone
il duro esercizio di tollerare sentimenti a cifra negativa-accanto
a sentimenti realisticamente più accettabili-, di trovare
soluzioni e strategie nella direzione di un miglior adattamento
.
Spesso la difficoltà a raggiungere simili obiettivi
comporta la necessità di dover scindere paziente vissuto
malattia in tante parti ,anche non congruenti l'una con l'altra,
pur di evitare il dramma dell'isolamento e l'angoscia che
ne deriva. Accettare molte idee su di sé e sull'altro
scardina però quella cornice di linearità e
di contatto buono (all'interno della quale possiamo anche
cogliere un bisogno di controllare sentimenti sgraditi e spiacevoli),
e nutre l'aspettativa di tenere comunque a bada ansia e paura
, imprevisti e pericoli supposti mortali L'impossibilità
di raggiungere un adattamento più consono rispetto
ai vissuti che definiscono la relazione con il paziente oncologico
si traduce spesso in una modalità razionale nella quale
sentimenti di impotenza per le altrui sofferenze e senso di
incomprensibile logica dell'umano destino - che include la
propria ed altrui morte - sono trasformati in una sorta di
desolato ed asettico convincimento che induce altrettanto
spesso ad una sorta di rassegnazione troppo realistica, finalizzata
a sopire e/o a mascherare , anche in modo inconsapevole, nostre
identificazioni con paure che l'altro prova
Il processo del lutto e, soprattutto, della perdita nasce
in queste fasi non sempre chiare e prontamente decifrabili
per il malato e per la sua famiglia. Si navigano sentimenti
ambivalenti e forti, si avverte spesso di riuscire a mantenere
appena in percentuale una relazione con una persona malata
, predata continuamente di vita dalla malattia, più
spesso appena in vita ma in niente più vitale Sovente
abbiamo l'impressione di alimentarci della inconfessata speranza
che sia l'altro a volerlo , più di quanto in realtà
comunichi di volerlo veramente.
In questa direzione siamo portati ad escludere il malato
ed i suoi vissuti,mirando inconsapevolmente ad una relazione
senza soggetti,una relazione con "lo stato delle cose",
parametri ematici etc.,ove malattia e tempi della cura diventano
interlocutori al posto nostro
Se riusciamo ad inglobare
il vissuto del malato con la sua malattia, siamo comunque
punti dal senso di impotenza ed intinti nello scoramento.
Abbiamo la percezione di navigare in un mare di logica illogica
Questo ci inquieta, aggiunge apprensione, rende la relazione
molto fragile,difficile ,complicata , in qualunque momento
cancerizzabile per le angosce, le sofferenze ed il senso di
impotenza scanditi dal tempo della morte che si annuncia e
da cure,medicamenti,farmaci che non restituiscono più
proprietà alla vita.. Molte volte la razionalità
tende a sopire la consapevolezza sempre più accesa
e vera di una incomprensibile ineluttabilità nella
morte e nella malattia inguaribile e traduce in una sorta
di rassegnazione apatica la voglia di negare tutto questo
e la realistica inutilità a farlo.
Il corpo dice parole che la mente non è più
in grado di dire. Dopo rimane solo silenzio e vuoto.
Esiste una linea sottile fra l'adattamento guadagnato attraverso
una riflessione che include la rassegnazione come sopportazione
attiva - ma non ne rappresenta l'unico e principale sentimento
- e l'adattamento come riconsiderazione coatta della finalità
della nostra esistenza ,che include la morte come amputazione
rispetto alla vita e non come prova finale e soprattutto significativa.
A volte le due linee possono sovrapporsi ,anche congiungersi,
una sorta di suggello ultimo per un'esistenza bene spesa di
cui si rimane veri proprietari fino alla fine, nel riverbero
e ricordo consapevole di poter lasciare a sé azioni
significative e di sapersi (finalmente!?)concedere l'abbandono
e l'oblio( e all'abbandono e all'oblio)
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
S.Caruso,L'ospite luminoso.Sulla compassione,Jaca Book,Milano,2002
R.H.Hopcke,Nulla succede per caso.Le coincidenze che cambiano
la nostra vita,Mondatori,Milano,1998
A.Pangrazzi,Aiutami a dire addio.Il mutuo aiuto nel lutto
e nelle altre perdite,Erickson,Trento,2002
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