di
Rita Farneti
Premessa introduttiva
E' indubbio che il lavoro terapeutico con l'anziano mette
a dura prova, si può affermare rappresenti anche una
sfida.
Gli ostacoli maggiori che il terapeuta può incontrare
sono rappresentati da sentimenti non sufficientemente elaborati
circa il proprio invecchiamento ,i propri genitori ,perdite
personali e l'idea della propria morte. Questi vissuti ricorrono
in forma indicibilmente intensa ed impegnativa durante il
trattamento terapeutico. Le rappresentazioni inerenti malattie
e perdite sono percepite in modo particolare da un terapeuta
che invecchia attraverso l'identificazione con un paziente
" già vecchio" .
Il coinvolgimento del terapeuta ,l'inevitabile presenza
di eventi critici che attengono al piano di realtà,
il loro alternarsi e la consapevolezza del termine del trattamento
costituiscono aspetti salienti ed impregnano la relazione
terapeutica con il paziente.
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In che modo si può affermare che un soggetto, pur
in età biologica avanzata, non è anche invecchiato
e troppo vecchio per vivere? Probabilmente attraverso la percezione
di un'impalpabile, genuina e congruente partecipazione alla
vita, per quanto quest'interessamento sia inevitabilmente
anche ombreggiato dal riconoscere gli inevitabili segni dello
scorrere del tempo che l'invecchiamento fisiologico scandisce.
La percezione del sentirsi vivo e vitale , affiancata dalla
consapevolezza che la vita non è eterna, è infatti
contrastata ed offuscata anche da un soggettivo, spesso variegato,
sentimento di fragilità, usualmente considerato un
attributo della vecchiaia. Nell'assumere consapevolezza della
temporalità dell'esistenza , consapevolezza soggettivamente
contrattata attraverso il bisogno di riconoscersi ancora in
possesso di proprietà della vita, la persona che invecchia
appare costretta a creare ulteriori , più consone e,
soprattutto, realistiche risposte adattive di fronte all'ineluttabilità
ed imprevedibilità di eventi critici .
Spesso l'anziano tende a rappresentare il proprio esistere
nel mondo come potenzialmente scisso rispetto al senso che
aveva usualmente attribuito all' esistenza , (che appare)
"improvvisamente" non (più)gratificante a
sufficienza, forse complessivamente poco coesa e coerente,
dunque più assimilabile ad una vita oggettificata nella
quale avvertirsi soggetto solo attraverso la formulazione
di una richiesta di onnipotenza ,appunto sconfiggere l'esistenza
della morte.
Si dice che il vissuto dell'età sia nell'occhio di
chi guarda, age is in the eye of the beholder.
E per il terapeuta? In quali pericoli può incorrere,
quali rischi possono concorrere a minare l'assetto di neutralità,
pur in una relazione che conserva empatia e partecipazione?
La vulnerabilità del terapeuta è attribuibile
alla vulnerabilità del suo narcisismo. È vulnerabile
perché il paziente anziano dà voce e forma ai
suoi stessi costrutti mentali, ai vissuti circa il proprio
incombente ed ineludibile processo di invecchiamento.
Un terapeuta anziano , anche malato, risulta maggiormente
esposto nel processo di identificazione con il paziente. Paure
ed aspettative riguardo alla (propria) realtà e a quella
futuribile, potenzialmente anche negativa, rendono complessa
la relazione e complicano la comprensione del mondo interno
del paziente.
E' noto che la situazione psicoterapeutica ,soprattutto l'analisi,
di per sé deliberatamente azzera il ruolo che assume
il piano di realtà al fine di promuovere un cambiamento
nell'equilibrio delle forze. Non va dimenticato che l'obiettivo
di ogni psicoterapia ad orientamento analitico ( e comunque
di ogni analisi) presume l'analizzabilità dei processi
che si modulano attraverso il sintomo , che traduce una condizione
interiore di sofferenza(vantaggio secondario del sintomo).
In che modo la realtà esterna, considerato l'inevitabile
declino fisico del paziente, può esigere che siano
fatte concessioni al puro piano di realtà ed alla mutata
(realistica) condizione fisica del paziente? Se molti terapeuti
hanno dichiarato di sentirsi gratificati nel soddisfare bisogni,
fantasie, istanze che gli stessi anziani non erano stati in
grado di esprimere e vivere nella relazione con figure significative,
nessun terapeuta risulta tetragono alla sofferenza legata
alla perdita ed al lutto, né a pazienti in così
precarie condizioni di salute da suggerire una morte quanto
mai prossima. In determinati momenti di crisi è ragionevole
considerare ciò che il piano di realtà esige
necessariamente si faccia.
Non va dimenticato che il terapeuta è colui che cura
e si prende cura: chiunque converrà sulla difficoltà
e delicatezza del viraggio al ripristino della preesistente
condizione di neutralità analitica, esauritosi l'episodio
acuto o potenzialmente mortifero per il paziente. Come già
altri autori hanno avuto occasione di sottolineare , le problematiche
derivanti dalla possibile fusione con il mondo interno del
paziente, modulata attraverso un'identificazione eccessiva
con i bisogni che l'anziano denuncia , sono rappresentate
nel terapeuta dal sentimento del sentirsi responsabile ad
oltranza per qualcuno, (con l'inevitabile confusione dei ruoli)
e danno voce ad istanze costruite su un paziente immaginato,
percepito e vissuto in toto come oggetto fragile e soggetto
bisognoso.
Questo schema cognitivo traduce il sentimento del sentirsi
custode, gratifica il bisogno di dipendenza del paziente e
,forse, rappresenta anche un rispecchiarsi narcisistico del
terapeuta.
L'eventualità di foraggiarsi della patente di eccellente
genitore ravviva ulteriormente il bisogno dell'altro come
figlio, con l'inevitabile fatica ad individuarne aree di autonomia
ed autosufficienza, pur se residuali ed estremamente limitate
in condizioni di disabilità e malattia , già
di per sé legittimate ad invocare i tesori di una dedizione
inesausta.
Aspetti analoghi si rinvengono nella modalità seduttiva
esercitata da un paziente anziano che manifesta un apprezzamento
"molto lusinghiero" per il proprio terapeuta, più
di quanto usualmente avvenga con pazienti anagraficamente
più giovani. E' facile cedere alla suggestione della
lusinga, sentirsi di (vitale)nutrimento per qualcuno, particolarmente
in momenti assolutamente duri e difficili.
Generalmente i terapeuti attribuiscono il vissuto dell'anziano
-l'esperire la sua condizione di fragile e bisognoso- ad una
rappresentazione ,altamente soggettiva, che si accentua attraverso
il processo dell'invecchiamento.
Ma cosa significano le parole vecchio e troppo vecchio? E
troppo vecchio per chi e rispetto a che cosa? I sentimenti
personali del terapeuta sulla propria vulnerabilità
fisica influenzano la relazione con il paziente anziano, inevitabilmente
interagiscono con il bisogno di saper rivitalizzare il senso
in un'esistenza che si avverte deficitaria e deprivata per
disabilità e malattia. Situazioni oggettive di emergenza
possono indurre il terapeuta ad agire difensivamente, con
tale apprensione , peraltro spesso legittimata da ragionevole
ragionevolezza, da creare i presupposti di una relazione eccessivamente
slivellata , forse idealizzata, con un paziente che appare
troppo vecchio per vivere una vita ancor meno che residuale.
Una sorta di condizione di salvataggio salvifico ,in grado
di soddisfare l'imperiosità del bisogno di dipendenza:
qualcuno ha pieno diritto di ricevere e qualcun altro solo
dovere di dare. Una relazione così congelata dalla
idealizzazione rischia di ingessare il terapeuta, intrappolandolo
nel ruolo di soggetto completamente dedito ad un paziente
, oggetto di cura ,ma soggetto poco protagonista di (una)
vita ,che il terapeuta interpreta già troppo gravata
da disabilità e malattia...
Infatti la tendenza a proteggere - e l'astenersi dal dare
interpretazione analizzando i conflitti del paziente - può
ostacolare ,persino inibire, il potenziale riadattamento del
paziente e l'accettazione della parte finale dell'esistenza,
potenziale che esiste anche in condizioni di estrema infelicità
.
Va anche sottolineato che i segni di un declino fisico toccano
profondamente il terapeuta ,e il focus non è più
l'analisi dei conflitti ,ma l'analisi dei sentimenti di fragilità.
Nel rivivere i sentimenti di fragilità e solitudine
del paziente è come se il terapeuta rivivesse la sua
parte di figlio ancora bisognoso delle cure di un genitore
troppo buono, dunque anche un suo rapporto con persone significative,
percepito ancora in qualche misura carente (quanto a sufficienza
è stato mai detto e fatto?), vieppiù costretto
a rendersi conto di una scomodissima verità ,quanta
poca carne stia intorno alla vita e come l'esistenza di ognuno
possa ridursi "improvvisamente" all'osso. In questo
schema cognitivo la rappresentazione della vecchiaia altro
non è se non un lutto anticipatorio nella rappresentazione
di una morte che non può più essere evitata.
I sentimenti di gratificazione narcisistica si esprimono anche(
ma non solo) apprezzando il grado di vicinanza e di intimità
che una relazione improntata sull'essere soccorrevole e confortante
può sollecitare.
L'io ideale del paziente sollecita utili identificazioni
con l' io ideale (del terapeuta), ma il paziente potrebbe
però colludere con questi aspetti ,in una sorta di
equilibrio artificioso, sollecitato a difendersi dal cogente
incontro con la sua morte, tanto temibile da dover essere
esorcizzata facendo rivivere nel terapeuta vissuti di ansia
e conflitto circa ( la sua ) fragilità e l'ineluttabilità
del commiato finale.
Se la psicoterapia può intendersi un modo per guadagnare
una più ampia conoscenza personale, che si dispiega
nella possibilità di fare scelte, di proteggersi al
meglio delle proprie risorse, in buona sostanza nell' essere
più compiutamente insediato nel proprio mondo interno
- il che non permette di evitare comunque la sofferenza -,
la scelta dello strumento terapeutico da parte del paziente
può essere letta difensivamente non solo come chance
ed opportunità di entrare in contatto con un mondo
interno reso autentico da una sofferenza in grado di essere
mentalizzata, ma anche come inizio di una nuova (im)mortalità.
Il tempo per comprendere il passato e poter riparare si estenderà
,in maniera illusoria, indefinitivamente. L'illusione di un
futuro "congruo e bastevole" è ricorrente
: le difficoltà maggiori derivano dalla capacità
di restituire senso ad un vissuto di perdita e di limitazione
che il paziente spesso denuncia. L'intensità e maneggevolezza
di tali vissuti dipendono strettamente dalle caratteristiche
della coppia terapeutica. Jung(1946) ebbe a dire che lo psicoterapeuta"
più esperto è continuamente costretto a riscoprire
che, a partire da una comune incoscienza, si è creato
un vincolo, un rapporto, che lo coinvolge direttamente. E
se egli si illude di possedere già tutti i necessari
concetti e conoscenze
finirà col persuadersi
che esistono molte cose ancora che
non immaginava neppure".
Circa venti anni dopo Racker(1968) sottolineerà che
l'interazione fra terapeuta e paziente non rappresenta una
mera relazione tra " un sano ed un malato, bensì
tra due personalità, ciascuna delle quali ha i propri
fantasmi e conflitti, e reagisce alla situazione analitica
".
I sentimenti di morte, solitudine ed isolamento spesso spingono
il terapeuta nella direzione della presa in carico oblativa,
lo pungolano all'assunzione di un ruolo di protezione. Il
materiale psichico che il paziente verbalizza, le sue fantasie,
i suoi desideri e ,soprattutto, le sue paure acquistano senso
se si accetta di incontrarlo là ove egli si trova,
disorganizzato, non attrezzato, annichilito.
I sentimenti di vita e di morte sono nella stanza. La consapevolezza
di accompagnare alla morte si nutre di sentimenti potentemente
dolorosi. Sono riattivate fantasie di abbandono e separazione.
Tollerare di sopportare un vissuto che impedisce qualsiasi
forma di contatto con il mondo è una delle operazione
mentali , nel senso di condivisione emotiva, più ardue.
A volte la fatica nell'incontro terapeutico è duplice
:avvicinarsi alla fine della vita ed alla rappresentazione
della propria morte tocca (pregresse) profonde esperienze
di abbandono e perdita, soprattutto in pazienti che già
hanno subito frustrazioni precoci e significative nelle prime
fasi dello sviluppo psicosessuale. Perdite dovute alle morti
di persone care , fantasie di abbandoni , sentimenti di isolamento
ed emarginazione sono rivissute alla fine del trattamento
terapeutico : preparano all'incontro con la prova più
significativa della vita , l'incontro con la propria morte
attraverso l'accettazione della medesima.
Il tentativo di soddisfare un'aspettativa illusoria (l'immaginarsi
immortali) collude con la paura della propria morte nel terapeuta
e con l'eco della medesima paura nel paziente.
Ogni cosa ha un' inizio, una durata ed una fine. La richiesta
di esperire nel terapeuta un contenitore in grado di contenere
angosce così profonde si lega anche al bisogno di mantenere
una continuità davanti ai cambiamenti del corpo, alla
malattia invalidante ed a così tante perdite. Dopo
tutto il terapeuta è un qualcuno che ci conosce bene,
che ci vede come noi stessi, nonostante cambiamo.
Vecchio può assumere il significato di troppo vecchio,
desolatamente ed indicibilmente vecchio?. Con una differenza
: vecchio aderisce ai costrutti di ruolo, è colui che
avanza nella parte ultima della vita ,troppo vecchio ,invece,
colui al quale sono dati molto più limitati e circoscritti
obiettivi.
Convengo che molto spesso la formazione psicologica del candidato
psicoterapeuta non metta sufficientemente in condizione di
affrontare profondi sentimenti legati alla realtà,
che includono l'aspettarsi una separazione definitiva dalla
vita ,pensare alla morte come destino comune ed alla propria
morte come evento ineluttabile. Accade che la proiezione del
proprio durare e permanere in vita, spesso, si specchi e si
sovrapponga alle aspettative su quanto resta del giorno (nel
e) del paziente. Quanto può essere gratificante usare
la realtà come difesa ,la malattia come alibi? In certi
momenti limitazioni e resistenze possono sovrapporsi .
E' difficile trattare la realtà come realtà
e la resistenza come resistenza se la malattia e la fragilità
del paziente fanno lievitare ansie personali .Le limitazioni
reali possono nascondere bisogni e desideri profondi : si
può fare un uso difensivo della malattia del paziente(
ad es. molte volte il bisogno di una vicinanza molto forte
cerca di dare scacco a sentimenti aggressivi che hanno a che
fare con la separazione e con la morte).
" Soltanto una profonda empatia in una situazione psicoterapeutica"
afferma Rheingold " può determinare la comprensione
di ciò che la morte significa per un altro essere umano.
Le immagini più profonde dell'estinzione personale,
e la reazione ad esse, si formano molto prima dello sviluppo
di una conoscenza empirica della morte. Oltre ciò ,causa
la loro natura inconscia, nella stessa mente possono esistere
fianco a fianco connotazioni contraddittorie, per cui è
possibile trovare idee di morte come liberazione dal male
e la morte stessa intesa come male, di morte come amante o
come salvatrice e di morte come distruttrice, di morte come
adempimento di una richiesta d'amore e come impossibilità
di un qualsiasi adempimento, di perfezione narcisistica raggiunta
con la morte e di morte come assoluto insuccesso. Le contraddizioni
però esistono soltanto nella logica poiché ogni
significato o atteggiamento affonda le proprie radici nell'esperienza.
Questi significati più profondi determinano in massimo
grado il fato personale e dovrebbero essere distinti dai significati
cognitivi e consci che generalmente esercitano una scarsa
influenza".
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
J.S.Grotstein(1978)Inner space:
its dimensions and its coordinates,International Journal of
Psychoanaliytic Association 59,55:61
F.Plotkin(2000),Treatment of the older
adult:the impact on the psychoanalyst,Journal of the American
Psychoanalytic Association,48/4,1591:1616
J.C.Rheingold(1972),La madre l'ansia
e la morte .Il complesso di morte catastrofica,Firenze, OS
G.C.Zapparoli,E.A.Segre (1997),Vivere
e morire.Un modello di intervento con i malati terminali,Milano,Feltrinelli
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