di
Carlo Caltagirone1,2 e Roberta Perri2
1Clinica Neurologica, Università di Roma - Tor Vergata
2Fondazione IRCCS Santa Lucia, Roma.
Premessa
Per fase preclinica si intende una fase di malattia che precede
l'insorgenza di sintomi e segni clinici di malattia. A sua
volta la fase preclinica di malattia può essere distinta
in una fase in cui la malattia è diagnosticabile con
mezzi di indagine particolari e una fase in cui la malattia
non può essere diagnosticata neppure utrilizzando mezzi
diagnostici particolarmente raffinati. Nel caso della malattia
di Alzheimer ci si deve chiedere se una fase preclinica realmente
esista e se una volta accertata la sua esistenza quali siano
i criteri clinici e i mezzi diagnostici per individuarla.
Diversi studi hanno cercato di dare una risposta a queste
domande cercando da una parte di individuare prospetticamente
lo stato di transizione fra il normale invecchiamento e le
fasi iniziali della demenza, e dall'altra rivolgendo il proprio
interesse allo studio retrospettivo delle fasi precedenti
l'esordio clinico di AD in pazienti riconosciuti come affetti
da tale patologia. L'insieme di queste ricerche se da una
parte ha permesso di individuare l'esistenza di una fase preclinica
di AD, dall'altra ha cercato di stabilire le caratteristiche
cliniche e i criteri in base ai quali sia possibile identificare
tale fase per rendere possibile l'individuazione nella popolazione
generale di soggetti a rischio per lo sviluppo di AD.
Fra invecchiamento e demenza: alla ricerca della fase
di transizione
In passato sono state fornite diverse definizioni cliniche
di deficit cognitivi subclinici legati all'invecchiamento
quali la "smemoratezza senile benigna" (benigne
forgetfulness) (Kral 1962), i "deficit di memoria associati
all'età" (AAMI) (Crook et al. 1986) o il "declino
cognitivo associato all'età" (AADI) (Levy 1994)
di solito individuandoli come deficit cognitivi isolati o
multipli accomunati più che altro dalla nozione che
tali deficit fossero comunque non evolutivi e quindi nei limiti
di un invecchiamento naturale. Più recentemente la
"normalità" di queste condizioni cliniche
è stata messa in dubbio. E' stato infatti dimostrato
che soggetti anziani non dementi ma con lievi disturbi cognitivi
presentano un aumento del rischio di sviluppare una demenza
degenerativa rispetto a quanto atteso nella popolazione normale
(Ritchie e Touchon 2000). Altre definizioni sono state allora
proposte per definire entità cliniche in cui il disturbo
cognitivo subclinico presenta un legame con gli stati francamente
patologici come il "lieve disordine cognitivo" (ICD-10
1993), il "lieve disturbo neurocognitivo" (DSM-IV,
1994) e il "disturbo cognitivo lieve" (MCI) (Petersen
et al. 1999) (per una estesa revisione vedi tra gli altri
Ritchie e Touchon 2000). In particolare il concetto di Mild
Cognitive Impairment, con cui ci si riferisce ad una popolazione
di soggetti anziani non compromessi sul piano delle attività
del daily living ma con un disturbo subclinico e isolato di
memoria potenzialmente a rischio per lo sviluppo di demenza
di Alzheimer, è stato introdotto proprio per definire
lo stato di transizione fra normale invecchiamento e demenza.
L'ipotesi generale alla base di tale concetto è che
i soggetti che stanno evolvendo verso una demenza attraversano
una fase di lieve deficit cognitivo caratterizzata da disfunzione
di una singola area cognitiva che nella maggior parte dei
casi è la memoria, sintomo cardine della AD (Petersen
et al. 1995). La diagnosi di MCI viene stabilita, secondo
Petersen e collaboratori (1995) in presenza di a) disturbi
soggettivi di memoria, b) rendimento patologico per età
e scolarità in prove di memoria, c) non interferenza
del disturbo sulle attività della vita lavorativa,
sociale e quotidiana del soggetto, d) normalità delle
altre funzioni cognitive e) assenza di demenza e f) assenza
di altre condizioni morbose che possano spiegare il disturbo
di memoria (ad es. depressione, malattie endocrine ecc.).
Tali criteri selezionano una categoria di persone le cui funzioni
cognitive generali sono simili a quelle di soggetti normali
di controllo, mentre le funzioni mnesiche sono simili a quelle
di pazienti affetti da AD lieve (Petersen et al. 1999; 2000).
Altri studi hanno mostrato che questi pazienti presentano
alterazioni del metabolismo della proteina precursore dell'amiloide
simili a quelle di soggetti affetti da AD (Padovani et al.
2001) e atrofia delle strutture mediali dei lobi temporali
sovrapponibile a quella di pazienti affetti da AD lieve (Visser
et al. 1999).
Mild Cognitive Impairment e malattia di Alzheimer
Studi longitudinali hanno dimostrato che pazienti affetti
da MCI presentano un aumento significativo del rischio di
sviluppare una AD. La stima del rischio varia a seconda degli
studi che indicano percentuali diverse di pazienti affetti
da MCI che sviluppano demenza e che vanno dal 10 al 15% all'anno,
per salire a percentuali variabili dal 20 al 50% in 2-3 anni
(vedi Ritchie and Touchon 2000). Tale variabilità,
come fanno notare alcuni autori (Petersen et al. 1999; Ritchie
and Touchon 2000), è in gran parte dovuta a differenze
nei criteri clinici applicati e nelle valutazioni neuropsicologiche
utilizzate nel selezionare pazienti affetti da MCI che si
riflette nell'eterogeneità dei campioni studiati. Se
infatti il disturbo di memoria deve essere riconosciuto come
patologico in base alle prestazioni ottenute a prove standardizzate
di memoria episodica che forniscono punteggi corretti per
l'età e la scolarità del soggetto, gli altri
criteri possono essere soggettivi e difficili da quantificare.
Ad esempio punteggi nel range di normalità del Mini
Mental State Examination (MMSE) vengono considerati come indicativi
di normali abilità cognitive generali, sebbene batterie
costituite da prove che indagano un numero limitato di abilità
cognitive siano spesso poco specifiche nel riconoscere una
fase iniziale di demenza. L'utilizzo di batterie di test neuropsicologici
più ampie possono dare informazioni maggiormente dettagliate
e permettere di escludere che il deficit di memoria non sia
accompagnato da deficit in una estesa gamma di altre abilità
cognitive. D'altronde il prendere in considerazione solo le
prestazioni del soggetto ai test neuropsicologici e la mancata
rilevazione di informazioni riguardo le sue abilità
nelle attività di tutti i giorni può impedire
il riconoscimento di una demenza molto lieve in soggetti che
potrebbero rientrare nei criteri definitori del MCI (Morris
et al. 2001).
Poiché la capacità di individuare soggetti che
svilupperanno un AD dipende in modo preponderante dai criteri
con cui viene identificata la fase preclinica, è attualmente
difficile giudicare il reale rischio di progredire in AD associato
al MCI inteso come deficit di memoria subclinico isolato.
Inoltre la mancanza di studi longitudinali sufficientemente
prolungati nel tempo non permette di stabilire se soggetti
affetti da MCI siano comunque destinati a sviluppare un AD
o un'altra forma di demenza o possano invece rimanere stabili
per lunghi periodi o addirittura indefinitamente.
In ogni caso, recentemente l'American Academy of Neurology
(Petersen et al. 2001) ha raccomandato che pazienti affetti
da MCI dovrebbero essere riconosciuti e monitorati nel tempo
riguardo all'eventuale declino cognitivo e funzionale dato
l'elevato rischio di questi soggetti di progredire in demenza.
L'autorevole fonte infatti, in un ampio lavoro di revisione
volto all'individuazione di parametri pratici per la diagnosi
precoce della demenza, ha giudicato che un tasso annuo di
conversione da MCI a AD, che a seconda degli studi varia dal
6 al 25%, è decisamente superiore alla percentuale
di soggetti che nella popolazione generale sviluppano annualmente
AD (l'incidenza media di AD nella popolazione generale è
del 0.51% nella fascia di età che va dai 70 ai74 anni
e sale al 3.9% nella fascia di età 85-89 anni).
Fattori predittivi di una più rapida progressione da
MCI a AD sarebbero alcune caratteristiche del disturbo di
memoria, lo stato di portatore dell'apolipoproteina E4 e la
presenza di atrofia dell'ippocampo (vedi per una recente revisione
Geda e Petersen 2001). Alcune caratteristiche qualitative
del disturbo di memoria, che di per sé caratterizza
i pazienti affetti da MCI, sarebbero infatti in grado di differenziare
i soggetti che tendono a una progressione più rapida
in AD. Per esempio, i soggetti con un'incapacità a
beneficiare di cues semantici in prove di memoria avrebbero
una maggior probabilità di progredire rapidamente a
AD. Inoltre, le prestazioni a queste prove di memoria correlano
con le misurazioni volumetriche dell'ippocanpo nei soggetti
anziani normali, soggetti MCI e soggetti AD (Petersen et al.
2000). Le neuroimmagini possono essere particolarmente utili
nella diagnosi di MCI e per predire la seguente evoluzione
del disturbo in AD. Le misurazioni volumetriche dell'ippocampo
di soggetti affetti da MCI infatti si pongono a metà
strada fra quelle di soggetti normali e pazienti con AD molto
lieve. Questi dati implicano che il processo degenerativo
è iniziato in questi soggetti e che l'ippocampo è
uno dei siti di più precoce coinvolgimento (Jack et
al. 1997).
Altri autori tuttavia hanno criticato il concetto di MCI ritenendo
che i criteri per la diagnosi di tale entità clinica
non siano particolarmente efficienti per l'individuazione
nella popolazione generale di soggetti a rischio per AD. Ritchie
e collaboratori (2001) in un recente studio longitudinale
effettuato su un ampio campione di soggetti della popolazione
generale hanno valutato l'incidenza e la validità predittiva
dei criteri diagnostici per MCI confrontando tali parametri
con quelli relativi all'Age Associated Cognitive Decline (AACD)
entità clinica in cui deficit cognitivi isolati e subclinici
possono riguardare tutte le funzioni cognitive e non solo
la memoria. In questo studio, la prevalenza di MCI nella popolazione
generale risultava del 3.2% molto inferiore all'incidenza
di AACD che raggiungeva il 19.3%. Inoltre, il tasso di conversione
di soggetti con MCI in AD alla fine di un periodo di osservazione
di tre anni era dell'11.1% mentre per l'AACD saliva al 28.6%.
Gli autori concludono che i criteri clinici per la diagnosi
di MCI non sono particolarmente efficaci quando applicati
alla popolazione generale e che l'evidenza di una sindrome
mnesica pura è un'evenienza clinica piuttosto rara
quando venga esaminato un ampio numero di funzioni cognitive
e che criteri stringenti per individuare un disturbo isolato
di memoria comportano l'individuazione di un numero di casi
molto piccolo ben al di sotto della prevalenza attesa di AD.
Conclusioni analoghe possono essere derivate da altre ricerche
(Bozoki et al 2001) che hanno evidenziato, ad esempio, che
pazienti anziani non dementi affetti da un disturbo isolato
di memoria presentano una progressione relativamente bassa
(6%) a demenza nei due anni successivi alla valutazione, mentre
il rischio di sviluppare demenza è significativamente
più alto (48%) fra pazienti con un deficit in un'altra
area cognitiva oltre la perdita di memoria.
Alzheimer preclinico
La presenza di una fase preclinica di AD è stata dimostrata
da numerosi studi che hanno mostrato che deficit di diverse
funzioni cognitive possono essere individuati alcuni anni
prima dell'inizio clinico della malattia.
In tre recenti studi longitudinali (Chen et al. 2000; Elias
et al. 2000; Small et al. 2000) ampi campioni di soggetti
provenienti dalla popolazione generale sono stati seguiti
per periodi di tempo molto lunghi (di 10, 22 e 7 anni rispettivamente)
e sottoposti a intervalli regolari a valutazioni cognitive
per l'accertamento dell'esordio di una demenza. Alla fine
del periodo di follow-up sono state confrontate le prestazioni
neuropsicologiche dei soggetti che erano rimasti non dementi
con quelle di soggetti che avevano sviluppato una AD per evidenziare
quali funzioni cognitive fossero maggiormente predittive dello
sviluppo di AD. In tutti i casi veniva evidenziata una lunga
fase preclinica di malattia in cui la memoria risultava essere
la funzione cognitiva più comunemente compromessa.
Anche deficit delle funzioni esecutive e delle capacità
di ragionamento astratto possono essere predittori della futura
demenza accanto ai disturbi di memoria (Chen et al. 2001;
Elias et al. 2001).
Altri studi (Fabrigoule et al. 1998; Jacobs et al. 1995; Linn
et al. 1995; Masur et al. 1994) hanno analizzato retrospettivamente
le prestazioni cognitive di pazienti affetti da AD risalenti
ad alcuni anni prima della diagnosi di demenza mostrando l'esistenza
di una fase preclinica di malattia in cui la patologia comincia
ad avere alcune ripercussioni sulle funzioni cognitive, ma
non è ancora sufficientemente sviluppata perché
i criteri per porre diagnosi di demenza siano del tutto raggiunti.
I deficit cognitivi descritti in questa fase preclinica come
possibili predittori di demenza e individuabili da uno a tre
anni prima dell'inizio clinico della malattia sono diversi:
oltre ai deficit della memoria episodica, deficit della fluidità
verbale, del linguaggio e del ragionamento astratto.
L'insieme di queste ricerche se da una parte conferma la precocità
e la quasi costante presenza del disturbo di memoria in una
fase preclinica di malattia, dall'altra evidenzia come frequentemente
il disturbo di memoria sia spesso accompagnato, già
in questa fase, da altri deficit cognitivi subclinici.
Conclusioni
Diverse sono le evidenze riguardo all'esistenza di una fase
preclinica di AD che può precedere l'esordio della
malattia clinicamente diagnosticabile di diversi anni. In
questo ambito il concetto di MCI, nato proprio per definire
lo stato di transizione fra invecchiamento normale e AD, ha
ricevuto grande attenzione in questi ultimi anni soprattutto
per le numerose evidenze riguardo all'elevato rischio dei
soggetti affetti da MCI a progredire verso l'AD. Il fatto
di considerare il deficit subclinico e isolato di memoria,
sintomo cardine dell'AD, come il più probabile precursore
di un AD clinicamente evidente trova supporto negli studi
che hanno individuato nei deficit di memoria il disturbo che
più frequentemente è presente nella fase preclinica
di AD. Tuttavia la variabilità con cui fino ad oggi
sono stati applicati i criteri clinici per la diagnosi di
MCI non consente una sicura valutazione del rischio di sviluppare
AD associato al MCI inteso come disturbo isolato di memoria,
e pertanto rimane aperta la questione se il MCI rappresenti
effettivamente la fase preclinica della demenza di AD. D'altronde
sembra ragionevole che anche altre categorie di soggetti,
ad esempio persone che presentano deficit cognitivi subclinici
che non riguardano solo la memoria, possano rappresentare
forme precoci della malattia. E' auspicabile che future ricerche
siano in grado di chiarire i confini e i criteri per la diagnosi
di AD preclinico, obiettivo questo che appare di primaria
importanza dato che lo sviluppo di strategie preventive e/o
terapeutiche della AD, come l'utilizzo di farmaci sintomatici
e/o patogenetici e la ricerca relativa all'uso di tecniche
di immunizzazione, richiede la possibilità di poter
intervenire proprio in una fase preclinica di malattia allo
scopo di poter bloccare o ritardare l'esordio clinico della
demenza.
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GLI INCERTI CONFINI FRA INVECCHIAMENTO E DEMENZA
Carlo Caltagirone1,2 e Roberta Perri2
1Clinica Neurologica, Università di Roma - Tor Vergata
2Fondazione IRCCS Santa Lucia, Roma.
Prof. Carlo Caltagirone
Laboratorio di Neurologia Clinica e Comportamentale
Fondazione IRCCS Santa Lucia,
Via Ardeatina 306
00179 Roma
Tel. 06 51501575
E-mail c.caltagirone@hsantalucia.it
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