di
Massimo Marci
Geriatra
Direttore U.O.C. di Medicina Interna
Ospedale "S. Giovanni Evangelista"
Tivoli - ASL Roma/G.
Negli ultimi decenni particolare attenzione è stata
rivolta al ruolo dei fattori di rischio cardiovascolare (
CV ) e all'evoluzione di questo concetto. A partire dagli
anni '90, si è fatta strada l'idea di rischio CV Globale,
secondo cui la coesistenza di fattori multipli di rischio
è in grado di aumentare nettamente il valore predittivo
di ognuno preso singolarmente. Ci si è poi resi conto
che alcune categorie di pazienti avevano un livello di rischio
così elevato da considerare inutile il calcolo tanto
da assimilarle alla prevenzione secondaria (diabete, lesioni
aterosclerotiche multiple).
Da tempo, ormai, è un fluire di pubblicazioni, congressi,
tabelle, algoritmi con cui si cerca di standardizzare il target
a cui assegnare il concetto di rischio, spesso foriere di
angosce dei pazienti; tuttavia, per una ampia classe della
popolazione, rappresentata dall'anziano, non esiste chiarezza
su come e che tipo di prevenzione cardiovascolare considerare.
Tra i cosiddetti fattori "tradizionali", che sono
stati oggetto di studi prospettici condotti su popolazioni
ampie e ben definite come il Framingham Heart Study (1) e
l'Atherosclerosis Risk in Communities Study (2), ve ne sono
alcuni, a cui le evidenze scientifiche conferiscono un ruolo
inoppugnabile nel determinismo della malattia aterosclerotica,
che possono essere distinti in "non modificabili"
(età, sesso maschile, fattori genetici) e di "potenzialmente
controllabili" (iperlipidemia, ipertensione, fumo e diabete).
Altri fattori, cosiddetti "emergenti", necessitano,
pur in presenza di validi presupposti patogenetici, di ulteriori
evidenze scientifiche per stabilirne il reale impatto nell'induzione
e nella progressione della malattia aterosclerotica; tra questi
basta citarne alcuni come la lipoproteina Lp(a), la apolipoproteina
A-1, la apolipoproteina B-100, il fibrinogeno, l'omocisteina,
la proteina C ad alta sensibilità (3).
In generale, questi non esercitano la loro azione in modo
isolato ma, il più delle volte, agiscono di concerto
tra loro; in questi casi, la coesistenza di due o più
fattori nello stesso individuo non ha un impatto puramente
sommatorio ma, piuttosto, sinergico sul "rischio CV globale".
L'assenza di condizioni di rischio evidenti, al contrario,
non garantisce l'immunità nei confronti di eventi cardio-cerebro-vascolari
aterosclerotici, anche fatali.
Allo stato attuale esistono vari metodi per stimare con buona
accuratezza il "rischio CV globale"; questi, per
la cui applicazione pratica si rimanda all'esame della letteratura
corrente, prevedono l'uso di algoritmi basati sui dati di
studi epidemiologici disegnati ad hoc, come gli aggiornamenti
del succitato studio di Framingham ( New Framingham Risk Score
) (4-5) ma anche come lo studio europeo PROCAM ( Prospective
Cardiovascular Munster Study )(6-7-8). Ad oggi, in attesa
della giusta collocazione dei fattori di rischio emergenti
e dell'assetto genetico individuale, le stime restano incentrate
sulla valutazione dei fattori di rischio tradizionali.
Gran parte della letteratura sui vari fattori ha come oggetto
la cardiopatia ischemica, tuttavia il peso dei singoli sullo
sviluppo e la progressione della malattia aterosclerotica
in distretti vascolari diversi da quello coronarico non sempre
è il medesimo, potendo variare a seconda del letto
vascolare interessato.
La maggior parte degli studi, poi, riguarda popolazioni di
età giovane o adulta ma comunque inferiore ai 65 anni,
cosicché restano indefiniti prevalenza, importanza
e impatto sulla sopravvivenza nell'anziano o ancor di più
nel grande vecchio ossia al di sopra degli 85 anni.
Alla luce di quanto sopra, dovrebbe essere chiaro che nel
soggetto molto avanti negli anni, le lesioni aterosclerotiche
e gli eventi clinici correlati appaiono principalmente dipendenti
dall'età piuttosto che dalla presenza dei fattori di
rischio vascolare, che con l'invecchiamento perdono il loro
significato predittivo nei confronti della malattia. Nonostante
quanto sopra è prassi comune osservare quotidianamente
la tendenza da parte dei medici, a correggere per quanto possibile,
anche con accanimento, ogni fattore mediante la somministrazione
di farmaci.
Come tutti conoscono i fattori di rischio CV più importanti
sono rappresentati dalla ipertensione arteriosa sistolica,
dall'ipercolesterolemia ed dal diabete mellito. La prima tende
ad aumentare con l'avanzare dell'età; è stato
dimostrato che i soggetti tra 75 e 101 anni con valori di
pressione sistolica tra 160 e 179 presentavano una significativa
riduzione del decadimento cognitivo rispetto a coloro che
mantenevano valori pressori inferiori a 130 mm Hg (9). Questi
dati ci devono comunque far riflettere in quanto i grandi
vecchi costituiscono una categoria dove è richiesto
un approccio diversificato rispetto all'altra popolazione.
In uno studio di Port è stato dimostrato, fra l'altro,
che il livello a cui la pressione arteriosa sistolica diventa
un fattore di rischio, è di 140 mmHg per l'età
giovanile, mentre per l'età anziana è invece
di 160 mmHg(10); questo significa che nel vecchio, salvo particolari
indicazioni, non vanno effettuati interventi terapeutici aggressivi.
Sempre relativamente alla ipertensione arteriosa, nel soggetto
anziano e nel grande vecchio va tenuto in conto la coesistenza
di altre patologie, come le stenosi carotidee, oppure la fase
acuta di un ictus cerebrale o la presenza di una arteriopatia
obliterante degli arti inferiori, magari in fase di ischemia
critica, condizioni queste per le quali l'ipertensione arteriosa
non rappresenta più un rischio ma un elemento atto
a facilitare il flusso arterioso nei territori ischemici,
da non ostacolare, ma lasciare possibilmente così com'è.
Certamente l'ipertensione è un rischio, ma va tenuto
in debita considerazione poiché può essere ben
più pericoloso il fenomeno opposto. Non va mai dimenticato
che con l'invecchiamento vi è una modificazione dei
sistemi di controllo dell'omeostasi pressoria, con incremento
della noradrenalina plasmatica, riduzione della sensibilità
dei barorecettori, del volume plasmatico, dell'attività
reninica plasmatica ed in particolare delle modificazioni
della parete arteriosa che diviene più rigida.
La crisi ipotensiva iatrogena e l'ipotensione ortostatica,
tipica del Parkinsoniano, possono essere altrettanto pericolosi
(favorendo una caduta a terra, a cui può seguire la
frattura di femore che determina nella maggior parte dei casi
una ulteriore riduzione dell'autonomia funzionale o peggio
ancora la morte), divenendo conseguentemente una vera emergenza.
Problematica simile, ma ancor più complessa e discutibile,
può essere rappresentata dalla iperlipidemia o meglio
ancora dalla ipercolesterolemia; oggi sono numerosissime le
prescrizioni di farmaci ipocolesterolemizzanti come le statine
in soggetti ultraottantenni, magari con polipatologia e ad
alto rischio di allettamento, non solo per ridurre il colesterolo,
ma anche per un discutibile effetto pleiotropico delle statine.
Vengono effettuate prescrizioni di farmaci ipocolesterolemizzanti
associati ad altre 10-15 molecole in ultranovantenni perché
presentano una stenosi carotidea, forse neppure emodinamicamente
significativa, oppure perché hanno avuto una crisi
anginosa.
Proprio nei soggetti ultraottantacinquenni è stato
dimostrato che più sono elevati i valori di colesterolemia,
più si sopravvive a lungo; è chiaro che questo
problema non può essere affrontato nello stesso modo
in un adulto di 40 o 50 anni dove l'ipercolesterolemia deve
essere trattata anche in modo aggressivo.
Nei vari articoli apparsi in letteratura spicca lo studio
CASTEL nel quale l'ipercolesterolemia non è risultata
un fattore di rischio per la mortalità cardiovascolare
dopo 12 anni di follow-up, in un confronto tra soggetti anziani
normo ed ipercolesterolemici(11) ; come pure in un articolo
pubblicato su JAMA del 2001, veniva messo in dubbio il rischio
vascolare negli ultraottantenni in presenza di ipercolesterolemia
superiore a 280 mg % (12).
Negli ultimi anni è stato ipotizzato il possibile
ruolo protettivo delle statine sulla insorgenza della demenza,
ma anche qui è necessaria la dovuta prudenza, perché
è un conto assumere statine in prevenzione dell'età
adulta, altra cosa è somministrare statine nel grande
vecchio quando i giochi sono fatti; in un lavoro pubblicato
del 2005 (13) non è stata dimostrata una minore insorgenza
di demenza in un follow-up a cinque anni in anziani trattati
con statine.
Relativamente al diabete mellito nello studio Rotterdam è
stato dimostrato che il rischio di sviluppare demenza cresce
nei soggetti diabetici trattati con insulina e/o ipoglicemizzanti
orali che hanno manifestano ricorrenti episodi ipoglicemici
dovuti ad un rigido mantenimento del target glicemico; è
quindi necessario mantenere valori adeguati senza ridurli
eccessivamente (14).
Fatte queste considerazioni sui fattori di rischio vascolare,
che nel giovane e nell'adulto sono di estrema importanza,
va attuata una sostanziale inversione di tendenza nell'anziano
ed in particolare nel grande vecchio, per i quali ben altri
fattori di rischio sono sicuramente molto più importanti;
il fattore di rischio non può essere solo quello cardiovascolare,
ma anche altri che nell'anziano sono sicuramente più
significativi rispetto al giovane e all'adulto.
Va ricordato al proposito che il paziente geriatrico si caratterizza
per la sua comorbilità, spesso in presenza di condizioni
sociali ed ambientali critiche con elevato rischio di disabilità
ed aumentata probabilità di andare incontro a perdita
dell'autosufficienza e conseguenti ospedalizzazione, istituzionalizzazione
e morte.
Nell'anziano vanno tenuti in debito conto altri parametri,
che probabilmente esprimono di più il risultato di
un intervento, e tra questi per esempio, la malnutrizione
appare estremamente importante: è stato dimostrato
che nell'ultrasessantacinquenne una perdita di peso annuale
del 3 % o più comporta un aumento di 3-3,5 % volte
il rischio di comparsa di dipendenza funzionale, come pure
la carenza di rapporti sociali e la mancanza di un supporto
familiare sono riconosciuti come sicuri fattori di rischio
per malattia e morte e questo rischio aumenta progressivamente
con l'avanzare dell'età.
Altro fattore da tenere in considerazione è rappresentato
dal ricovero ospedaliero che spesso, per l'anziano può
determinare un grave scompenso psico-fisico in rapporto a
molteplici fattori, quali stress, immobilità, eccessivo
uso di farmaci, attuazione di procedure diagnostiche complesse
invasive ed inutili, spesso a causa della presenza della visione
ultraspecialistica odierna e soprattutto per la mancanza di
un approccio olistico nei confronti dei problemi fondamentali
del singolo paziente.
Durante la degenza si possono verificare una immobilizzazione
prolungata, una incuria dal punto di vista riabilitativo durante
la fase acuta di una malattia, tali da alterare gravemente
l'omeostasi locomotoria del soggetto, fino all'instaurarsi
della sindrome da immobilizzazione.
La cultura medica corrente tiene conto giustamente della
medicina basata sulle evidenze e viene ben applicata nei soggetti
giovani o adulti ed affetti da una-due patologie; per l'anziano
ed il grande vecchio è tutt'altra cosa, non vi sono
termini di confronto proprio perché i malati anziani
ed in particolare gli anziani cosiddetti "fragili"
non vengono quasi mai inseriti nei trials, per la frequente
polipatologia che essi presentano e conseguentemente non vi
sono termini di riferimento.
Questi dati ci devono far riflettere proprio sulle cure che
noi geriatri somministriamo; non è possibile somministrare
per ogni malattia, o peggio ancora per ogni fattore di rischio
uno, due o più farmaci; in sostanza va evitata la cosiddetta
"cosmesi farmacologica". Mi è capitato di
osservare nella normale attività ambulatoriale e di
corsia, pazienti che assumevano fino a 15-16 molecole nel
corso della giornata, ed allora il vero rischio per il vecchio
è proprio quello di essere sottoposto ad un eccessivo
ed indiscriminato eccesso di diagnosi con conseguente indiscriminato
eccesso di terapia farmacologica, come se il compito del medico
sia quello di dispensatore di farmaci per ogni singola malattia;
che ad ogni malattia o fattore di rischio deve per forza corrispondere
un trattamento specifico farmacologico, perché lo dice
questa o quella linea guida.
Compito nel "vero" Geriatra è quindi proprio
quello di valutare ogni singola patologia del suo paziente,
nel contesto globale dell'individuo correlando ogni infermità
con le altre, tentare sempre di semplificare, sintetizzare
e razionalizzare una realtà molto complessa, identificare
quali siano le priorità ed i rischi per quel singolo
soggetto, tenendo conto che non esiste solo la terapia farmacologica
ma anche quella assistenziale e riabilitativa, e che l'autonomia
funzionale rappresenta il parametro principale da considerare
quando ci si trova di fronte ad un episodio febbrile, un infarto
del miocardio o un ictus cerebrale.
Una corretta valutazione clinica, ed una equilibrata e soprattutto
sintetica ed essenziale somministrazione terapeutica sia essa
farmacologica o riabilitativa, apporterà non solo un
miglioramento dello stato clinico del paziente, per ridotti
effetti collaterali, ridotte reazioni avverse, ma anche un
risparmio per le casse del Servizio Sanitario Nazionale.
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Indirizzo per la corrispondenza: Dott. Massimo Marci
Via Acquaregna 127, 00019 Tivoli (Roma)
e-mail: m.marci@alice.it
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