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Morire la morte tra conforto e disperazione Torna agli editoriali

di
Rita Farneti

In fase di pubblicazione con l'Editore Imprimitur di Padova in Quaderni di Cultura della Formazione

Dammi il supremo coraggio dell'amore,
questa è la mia preghiera,
coraggio di parlare,
di agire, di soffrire,
di lasciare tutte le cose,
o di essere lasciato solo.

Dammi la suprema certezza
nell'amore, e dell'amore,
questa è la mia preghiera,
la certezza che appartiene
alla vita nella morte,
alla vittoria nella sconfitta,
alla potenza nascosta
nella più fragile bellezza.

( liberamente riadattato da "Preghiera" di K.Gibran )

Premessa

Il concetto di morte diventa significativo ed acquista una maggiore pregnanza quando ci accade di accompagnare qualcuno a morire, perché il processo del morire costituisce il distillato di operazioni emotive complesse, altamente sofisticate. Accompagnare alla morte riassume il senso della vita poiché permette di affrontare l'esperienza di morte trasmessa dal vissuto di chi assiste e di chi è assistito.

Vissuto scandito da sentimenti conflittuali e spesso in contraddizione, in grado di destabilizzare le difese dell'io: l'umano che si legge mortale, investito da emozioni forti, pungolato dalla consapevolezza di sentirsi a termine, è sollecitato ad accedere ad una nuova impensabile realtà.

Lo sgomento nel percepire un vuoto "intollerabile" ed una "profonda" impotenza è faticosamente contrastato dal bisogno di trovare un contenitore per emozioni così intense .Speranza e tormento assumono un ruolo fondamentale, addirittura fondante,nel processo di separazione dalla vita .

Della nostra ed altrui morte

Quando ancora "vivente " per l'essere umano il sapersi mortale - e, dunque, la certezza della propria morte- è scandito dalla consapevolezza di una logica imprevedibilità, di una incomprensibile, impudicamente semplice ineluttabilità, poco trasformabile in speranza ed in capacità di lasciarsi andare.

Se la morte risulta,dunque, invincibile, la medicalizzazione ad oltranza, forme di eutanasia o di suicidio medicalmente assistito possono, forse, interpretare il tentativo di sottolineare "in qualche modo" una sorta di potere che l'essere umano "ancora"rivendica nei confronti della propria ed altrui morte.

Il desiderio di anticipare la morte per porre fine ad una sofferenza a volte davvero più che straziante e, parimenti, l'illusione di aver titolo a ritardar l'incontro della morte, segmentando, quasi sezionando, ogni palmo di corpo del morituro, fino a deanimarlo, potrebbero interpretarsi strategia di guerra,dichiarata a tutto campo dalla scienza medica, ingaggiata con armi (tecnologiche e farmacologiche) sempre più aggressive, sofisticate , potenti .


Quanto incerto, labile ed anche frammisto (e mai come in quest'ambito la valutazione obiettiva impegna ad una scelta valoriale) può dirsi il confine fra la possibilità di lenire il dolore , evitando al morente( ed alla famiglia) la protezione ad oltranza di un soggetto agonizzante, "oggetto quasi ghermito dalla morte", e la capacità di morire "dignitosamente" , di una morte pienamente inclusa nella vita della persona fino all'ultimo degli attimi ?

Fino a che punto un essere umano, alla soglia della morte, può dirsi di abitare il proprio corpo riconoscendosi in esso ?

Fino a quando e, soprattutto, come può dichiarare il possesso di una vita di cui sentirsi protagonista con diritti pieni piuttosto che attore con doveri negoziati da altri?

Al bisogno di controllo sul "sintomo dolore", attraverso l'atto concreto della prestazione professionale il medico,spesso, alterna la percezione di un personale e malinconico travaglio per la complessità e la delicatezza imposte nel mantenere comunque viva e confortante la relazione con il proprio assistito che sta morendo.

Diventa sempre più palese come l'uomo, attraverso l'atto di negazione della morte - evento che appartiene in toto all'umanità- aneli ad una forma di morte "affrontabile" perché meno "incombente e temibile" , magari parcellizzata in una gestione tecnica delle fasi della morienza, col ricorso a farmaci o col rifiuto degli stessi.

Poter tener a bada l'angoscia del morire, riacquistando la capacità di diventare soggetti della propria morte, e non più e solo meri oggetti di essa, non basta ad evitare di attraversare il terrore dettato da un'amarissima consapevolezza: la morte contrassegna la vita fin dal suo sbocciare ed assegna un termine che è limite invalicabile.


Pensare alla morte non solo come biologica cesura della vita, ma anche ( e soprattutto) come evento che afferma essere non più possibile guardare a se stessi come"ancora se stessi"diventa il motore per alimentare la capacità di tollerare lo scoramento,spingendoci alla accettazione della sospensione e del vuoto, favorendo momento dopo momento la consapevolezza della necessità di separarsi dalla vita attraverso la percezione sempre più viva e pungente del legame con una speranza inesorabilmente perduta.

La vita , con attributi e preziose proprietà, davvero viene messa fra parentesi per poter attraversare il senso del vuoto, del silenzio e della sospensione che preludono al distacco definitivo, mentre al contempo si rende palpabile ed evanescente l'inquietudine generata dalla sensazione di affrontare una prova senza la possibilità di trasformare la medesima (prova) in qualcosa di "ancora" umanamente accettabile e comprensibile.

Il processo del morire rappresenta dunque un evento complesso, poiché richiede di divenir consapevoli di un sentire la morte non più e solo ancorato a puro accadimento, usualmente definito logico ed al tempo stesso illogico,ovvio ed al tempo stesso impensabile, scontato perché in grembo alla realtà delle cose ed in pari misura dominante sul reale.

La morte , evento che tocca l'essere umano in quanto vivente generalizzato, contrassegnato -poichè mortale- da terminabilità e caducità, rappresenta una prova che impegna la persona come proprietaria di qualità di vita.

Rappresenta un accadimento doloroso, inevitabile, che ci legge tutti coprotagonisti perchè tutti "potenziali" morituri.

Soprattutto si mostra al pari di un dardo incontrollabile, dalla imprevedibile traiettoria, conficcato nell'essenza stessa della temporalità, cuore dell'esperienza di vita.

Se solo pensiamo al novero degli attimi " morti" che costituiscono la nostra quotidianità, siamo punti da una verità sconcertante, spesso data per scontata, la irrepetibilità dell' esistenza.

La morte concepita come divaricante e paradossale evento futuro , ineluttabile avvenimento, esalta lo stacco insanabile dalle proprietà della vita e costituisce il più spietato assalto alla vita intesa come continuum nel quale sperimentiamo noi stessi come ancora noi, portatori di senso per gli altri con i quali abbiamo vincoli, legami, relazioni.

E' prova altissima e significativa nella quale riconosciamo il pungolo di una nuova asimmetrica relazione con noi stessi( un io che guarda a se stesso come non più se stesso), una prova che ci rende vieppiù consapevoli di una verità che esclude dall'interno quanto, nel pensarsi vitali, condensava "appena un attimo prima"conoscenza , esperienza, progettualità.

Fino al momento in cui il pensarmi morto mi porta a guardare a me stesso come "non più me stesso" ogni manovra di aggiustamento o adeguamento rappresenta un tentativo di acciuffare la speranza per la coda, auspicando che la morte non domini ancora in tutta la sua inquietante semplicità, al massimo sia "evento-altro" rispetto ad una vita che "ancora" mi appartiene e della quale voglio (posso?!) avvertirmi "sempre" partecipe.

L'incontro con la morte nell'altro

Ogni sforzo per meglio qualificare l'assistenza ad un paziente che sta morendo può incontrare una modalità probabilmente difensiva perché gli atti medicalizzati assumono la funzione di soggetti rispetto ad un paziente sempre più territorio (oggetto) di morienza.

Tanto più forte è il potere della tecnica e della strumentazione tecnologica- chiunque sia stato in un reparto di rianimazione si ricorda oggetto di cura ,in balia del potere asettico delle macchine- tanto più inquietante è la presenza di una morte annunciata da messaggi nei quali non vogliamo toccare le spine di una vita che aneliamo non ci abbandoni.

Si cerca di salvare dalla morte una condizione che di vitale spesso ha poco,quasi l'agonia possa dirsi ultimo urlo in grado di dare voce ad una lotta impossibile con una morte sovrarappresentata, un tentativo umanissimo ,in chi assiste, di tenere a bada il proprio senso di vuoto .Accade sempre più spesso di sentirci poca cosa, minimi dettagli, davanti all'infinita complessità di ciò che è per noi sconosciuto.

In qualche modo può affermarsi che tentiamo di tenere a bada la morte,diventandone quasi i guardiani…E se cosi' fosse davvero potremmo "ancora" pensarci più forti di lei,suggellando le proprietà della vita di cui fino all'ultimo vogliamo rivendicare il possesso , con la più potente delle armi,l'onnipotenza.

Può forse leggersi in questa direzione il bisogno insopprimibile di fissare ancora dettagli , di liquidare questioni divenute faticosi ingombri, se viste alla luce di una insopportabile necessità ,mentre mettiamo mano agli ultimi e definitivi dettagli per vivificare la speranza di essere ancora con il nostro. Proprio quando lui ci sta lasciando cominciamo davvero a pensarci tutti morituri...

Per sentirci ancora dentro la sua vita e soprattutto sentire lui nella nostra,nella ingenua ma forse necessaria convinzione di adoperarci nel migliore dei modi per offrirgli qualche giorno in più..

In questo modo diventiamo consociati della vita ed alleati contro la morte…Padroneggiando i dettagli della cura riconfermiano a noi stessi che stiamo facendo tutto il possibile per offrire quel tipo di assistenza qualificata che ci porta a tollerare l'inquietudine ed il tormento ingenerati dalla situazione mortifera.

Se non si sconfiggerà la morte ...almeno le si darà del filo da torcere prima che accampi tutti i suoi diritti sul nostro caro …E' doloroso pensare l'altro morto sentendo ineluttabilmente morte le "nostre" parti ancora depositate dentro di lui ,parti che invece pretendono ancora vita e della vita gli attributi più preziosi ed irrinunciabili, protezione,sostegno,condivisione, sollecite premure, passione , slancio, rischio.…

Se dunque l'altro muore muoiono con lui le nostre richieste :non esisterà più luogo ove possa trovarsi ascolto e conforto.Avere contatto con le paure che la morte dell'altro evoca dentro di noi richiede molte risorse e profonda consapevolezza perché impone di gestire una relazione complessa, delicata, dolorosa con i fantasmi evocati dal dolore dell'altro.

Per Ancona " un'assistenza corretta e adeguata al morente, che corrisponda cioè alle esigenze e alla dignità di una persona che sta per lasciare la vita,è sicuramente un'operazione di alta complessità:essa richiede infatti non solo competenza tecnica e profonda maturità psicologica,ma in modo specifico una perfezionata virtù spirituale,derivante da una diuturna esperienza di confronto con la propria sofferenza e la propria morte".

Se riusciamo ad accogliere la morienza dell'altro possiamo accompagnarlo con il più alto grado di intimità e rispetto,pur davanti ad una relazione asimmetrica ,spesso non col malato nella sua interezza ma con le infinitesime proprietà di quella vita che ancora debolmente lo anima e di cui attimo dopo attimo cogliamo l'intollerabile impoverimento.

Il contatto fisico è difficile, imbarazza,tormenta l'idea di quella vicinanza con uno sconosciuto impregnato già dall'odore della morte.

Non facilita il dialogo;le parole sono mute ,i gesti nuovi e imbarazzati,resi goffi dal tormento di una situazione che ha tutti i tratti del naturale e nessuna traccia di una naturalezza praticabile.

E' complicato attivare una comunicazione che ancora permetta un dialogo.

E' paralisi relazionale che usualmente ci accade di avvertire quando qualcuno muore in ospedale.

E' l'inizio di una nuova asimmetrica relazione: nel futuro l'altro sarà dentro di noi, ma non potremo più essere dentro di lui e con lui.

Per paradosso sulla morte abbiamo un surplus di comunicazione ed un minus di relazione in quanto, quando parametri e funzioni vitali del morituro declinano, si attiva una sorta di blocco perché l'altro che sta morendo non è più l'altro che abbiamo conosciuto e con il quale abbiamo intessuto le fitte e note trame della nostra relazione.

E tutto ciò è intollerabile.La fatica del lutto nasce dal fatto che la morte ci depreda di un nostro con il quale abbiamo intessuto vincoli di amore ed amicizia e ci lascia l'onere di cercare il ricordo che l'altro deposita dentro di noi.

Le ombre dell'addio annunciato aspettano si compia dentro di noi l'accettazione del commiato comprendendo appieno quello che da sempre sappiamo:davanti alla morte dell'altro dobbiamo far crescere e nutrire la nostra capacità di tollerare di abbandonare e di essere abbandonati.

La semplicità della morte spesso viene negata dal bisogno di annullarne, anche mascherarne, i tratti, combattendola spesso attraverso atti medicalizzati o un asettico abbandono , giustificato dal fatto che è stato fatto quanto possibile ed infierire con ulteriori cure si rivelerebbe solo (inutile) accanimento terapeutico....La morte è l'unico atto vero della nostra vita, invoca silenzio pieno e profondità attraverso il farsi dell'attesa e del distacco,appella a risorse non scandite da gesti o fatti ,richiede soprattutto la capacità di aver costruito la capacità di operare distacchi .Questo modo di comprendere ed accettare la morte permette al morente di portare con sé azioni significative ed ancor prima alimenta in lui la capacità di distaccarsi veramente da quanto può dirsi ancora vita.

Morte nell'oggi, morte domani

In questo nostro tempo il bisogno di prolungare l'esistenza in vita del morente corrisponde alla necessità di posticipare l'idea della morte,caricandola sempre più di significati negativi.Morire diventa l'atto contro natura per eccellenza sia quando si desidera porre fine alle sofferenze del morente sia quando si tenta di prolungare un tempo biologico al quale appartiene un corpo estremamente compromesso.Si cerca di dare una qualche forma di vita ad un corpo tenendo a distanza la relazione con chi lo abita, come se l'unico linguaggio fosse ancora quello dei parametri biologici e non il significato che quell'attimo ormai evanescente assume per la persona che sta lasciando la vita.

Illusione dell'uomo di avere ancora il potere di fissare dettagli prima della fase finale della propria ed altrui esistenza?

Di poter dire sine vinculis e a suo insindacabile giudizio ed arbitrio la parola fine?

La capacità di provare o non provare speranza gioca un ruolo decisivo nel processo di separazione dalla vita.Il senso di speranza nel non essere completamente deprivati della vita passa anche attraverso la sollecitudine della cura ,la percezione di avere appigli ancora "solidi"per non morire nel cuore di chi ci è vicino,soprattutto attraverso il grado di conforto e dolcezza che l'ambiente (holding)riesce a trasmettere al morente, alla intimità profonda che il morente riesce ancora a percepire, attraverso un sentire religioso( per il credente) o una capacità spirituale che consente di operare separazioni ed attuare distacchi.

Il concetto di dolore anticipatorio può aiutarci a leggere il senso di sconforto, la desolazione e l'impotenza addensata nella consapevolezza di essere giunti alla fermata finale.

La capacità di entrare ancora in relazione con il morente,contenendone le paure, esigerà che non si guardi altrove :se sappiamo riconoscere la mancanza di vitalità già nel mondo vegetale ed animale,potremmo forse favorire nel morente la disposizione a rinunciare al palpito della vita, alla consapevolezza di progettarsi come ancora esistente attraverso le qualità del vivere, mantenendo però fino all'ultimo coerenza con ciò che di sé conosce.

Questo può aiutarci a fronteggiare quel senso di smarrimento letto negli sguardi prima che detto dalle parole, accettando nell'altro anche la paura ,il tormento ,il silenzio, lo sgomento prima che si possa permettere di lasciarsi andare all'incontro con la "sua" morte.

Ai giorni nostri l'atto del morire tende ad essere sempre più posticipato ,quasi modellato sulla volontà di avere possesso della durata del tempo di vita molto più che in passato,dunque speranza , desolazione e senso di impotenza hanno un ruolo più attivo nel processo di fine vita.La comprensione che sorregge una speranza dalla quale è giocoforza doversi separare alla fine del tempo di vita può esprimersi in varie forme, attraverso il gesto sollecito e rispettoso della cura , la disponibilità a tollerare con delicatezza il silenzio ,il contatto vero con la intimità profonda del morente ,tollerando un incontro con l'altro ormai deprivato delle proprietà della vita, eppure mai come in quel momento desideroso di essere con noi e dentro di noi. Accogliere il bisogno di protezione ,la necessità di ancorarsi "ancora"a qualcuno in grado di arginarne la paura prima dell'abbandono che più nulla reclama, permette al morente -non al corpo ormai sfinito- il contatto con la vita attraverso una relazione che sostiene entrambi(assistente ed assistito), addolcita da un silenzio senza più tormento e paura.


Per poter traghettare verso quel nulla che può essere percepito uno scollegarsi, uno sprofondare, un perdersi, lenito dalla vicinanza dello sguardo dell'altro nel quale ancora è possibile specchiarsi.


La capacità di migliorare l'assistenza nelle fasi finali della vita esigerà che si vada al di là del tempo stabilito -sentenziato- dettato dalla prognosi e dai desideri personali per comprendere le dinamiche della speranza e della assenza della medesima.Per rendere in qualche modo più variegato il vissuto di speranza e la capacità di lasciarsi andare nelle ultime fasi del tempo di vita dobbiamo incrementare la fiducia nella crescita interiore di ognuno là ove è possibile.

Per la maggior parte della storia dell'umanità fino agli inizi del Novecento la medicina ha potuto fare ben poco per prevenire e curare mali oltre che incrementare la durata media dell'esistenza.Il vivere fino a tarda età poteva dirsi privilegio di pochi e fortunatissimi.

Come popolo di viventi abbiamo dunque acquisito la capacità di controllare e modulare aspetti molteplici attinenti al processo del morire,eppure il morire rappresenta sempre più un problema sul quale poggia il peso della decisione umana oltre che mistero legato ad un fato imperscrutabile - cinico e baro quando si muore giovani-, frutto del disegno divino per i credenti.

Siamo più attrezzati rispetto ad alcuni lustri fa nel porre fine alla vita anticipando la morte,ma ci carichiamo di responsabilità ulteriori e dilemmi etici che cagionano ansia ed inquietudine.

Quando siamo in difficoltà troviamo una ragione per vivere sperando in qualcosa di migliore .Se la speranza traduce un "disporsi in positivo verso il proprio futuro", include anche quel conforto appagante che si rinviene in noi stessi, generato dal pensiero del proficuo godimento nel futuro di una cosa giusta, atta a darci appagamento.

Sfortunatamente alcuni di noi non sono in grado di immaginare un qualche godimento prossimo e quindi soffrono per questa mancanza di capacità di speranza.L'interazione fra la speranza e la mancanza di speranza alla fine della vita è più importante e complesso di quanto usualmente si ritenga.

Eppure speranza e assenza di speranza alla fine del tempo di vita non rappresentano semplici e meri problemi medici o di pertinenza psichiatrica poiché racchiudono intimamente tutto ciò che cultura e spiritualità hanno da offrire.

In punta di piedi

Ai giorni nostri la morte è un avvenimento che attiene alla vecchiaia avanzata.Eutanasia e suicidio medicalmente assistito non sono mai stati così in auge, popolari, discussi e scomodi come oggi, anche perché la paura della morte -e l'angoscia che si lega alla rappresentazione della terminabilità della propria vita - sono difensivamente contrastati da una tecnologia sempre più complicata, una specie di protesi razionaltecnologica di un mondo che vede nel morire uno smacco niente affatto naturale (per quanto ci si accostumi a ribadire il contrario, che la morte faccia parte della natura delle cose..).Sottratta alla naturalità degli eventi per essere trasformata in una sequenza di atti ostativi che deanimano il morente, riducendolo ad oggetto di morte, la morte diventa atto negato ed allontanato: riafferma ancora di più temibile potenza ed illogica logica.Diventare oggetti della morte è diverso dall'essere soggetti del proprio morire, che invece permette di attingere a quanto di più profondo è in noi, consapevoli di quello che ha per noi significato la nostra avventura di vivere.

Usualmente si muore in ospedale : a tutt'oggi è difficile ritenere che quella della morte possa intendersi una facile gestione, soprattutto risulta difficile pensare che il processo di morte in ospedale goda di significativi miglioramenti..

Spesso colui che assiste ed accompagna il morente si trova invischiato in una condizione nella quale il sapere diventa un qualcosa che impedisce di avvicinare il sentire: quanto più si largheggia in informazioni sulla prognosi e sui desideri del paziente tanto meno si migliora la qualità del morire.Penso che lo scopo da raggiungere non sia rappresentato solo dall'offerta di dignitosa, qualificata e rispettosa assistenza ma anche dalla capacità di leggere ed interpretare, con tatto e con il massimo della disponibilità, i desideri "veri" della persona che sta morendo ( non solo dunque eventuali nostre paure che il silenzio dell'altro evoca, tanto colpevolizzanti da tormentarci dopo la morte di "quel"paziente).

Più che offrire qualcosa nei fatti credo si tratti di disporci ad accompagnarlo, aiutando la sua capacità di stare da solo a pensare alla propria morte ed a meglio prepararsi per affrontarla.

Tutto ciò nasce da movimenti interiori, profondi ed impercettibili,da silenzi pieni di sospensioni,velati dagli ultimi interrogativi,da un tremore anche sano che si deve saper accettare ed accogliere in una sorta di sintonia, quell'atmosfera speciale per cui tutto ciò che è dissonante e temibile risulta quietato, profondamente umano, vero, liberato da quanto ormai non serve più.

Certo saggiamente e doverosamente coniugato con la efficienza della strumentazione e con l'ausilio della informazione tecnicamente offerta nelle ultime fasi della esistenza in vita .Migliorando la qualità degli ultimi giorni di vita si favorisce anche un processo di separazione tollerabile e di abbandono emotivamente consapevole.Finchè il binomio cure mediche= guarigione dispiegherà i vantaggi della sua logica potenza il medico avrà l'onere di confrontarsi con l'assunto derivato dal suo narcisismo.

Quando è stato fatto tecnicamente tutto risulta duro doversi separare da quel paziente, ma ancor più doloroso risulta prendere atto che la medicina ha un limite - e non dimenticarlo- e che il potere della morte sulla vita regna comunque sovrano.Spesso i pazienti, le loro famiglie ed i medici colludono nell'evitare di menzionare la morte ed il morire, perfino quando la sofferenza del paziente è alta e la prognosi concede pochi giorni di vita.

Spesso la relazione fra medico e paziente è scandita da comunicazioni di dati tecnici, mentre si struttura solo marginalmente la competenza emotiva a trattare col paziente ed a rendere autentica una interazione umanizzata dai vissuti e dalle esperienze di entrambi.

Ci si separa in coppia anche nella morte.

Nella esiguità del tempo dedicato ai colloqui i medici usualmente incontrano difficoltà nella relazione con il paziente,spesso provano sentimenti di disagio, dispiacere,senso di impotenza ed imbarazzo profondo quando devono toccare il doloroso tasto del fine vita, azzerando ogni palpito ( residuale) di speranza nel paziente e nella sua famiglia.A volte il medico aspetta fino all'ultimo prima di parlare di morte con il paziente, aspetta che le ali della morte lambiscano la stanza sfiorandola da lontano,ritenendo così di dover proteggere la speranza di vita che anima quel morente. Mettere ancora la morte fra parentesi rappresenta il motivo profondo che sorregge questo barcamenarsi nell'attesa.

In realtà molti pazienti desiderano sia che il medico sia con loro franco - e dunque una parte di loro vuole sapere quanto tempo di vita ancora loro resta- sia che non distrugga totalmente la loro speranza.

Il decidere di non prolungare l'assistenza farmacologica rappresenta per il paziente un segnale di allarme.Da questa prospettiva occorre riguardare le cose, interrogarsi su cosa sia meglio riguardo alle dinamiche della speranza, nella tensione fra il prolungamento della vita, anche a costo di indicibile sofferenza ,il barcamenarsi senza appalesare la infinitesima pochezza del tempo che resta,addirittura mascherando il disagio con un surplus di assistenza over-protection ed il favorire ,piuttosto,nel malato la possibilità di affrontare una morte che lui sia in grado di avvertire davvero umana e dignitosa .

All'affacciarsi della morte nella stanza della cura ,provando infinito scoramento e mancanza di speranza, cosa è normale e cosa è patologico? La letteratura psichiatrica ha dipinto una forte linea di demarcazione fra il riconoscere la morte come imminente ed il desiderare che la morte si affretti a giungere pur comprendendo l'afflato normale della paura e l'afflato patologico derivato da una sofferenza che dilania un se stesso incapace di riconoscersi.

In che modo è possibile la comprensione della fluttuazione giornaliera del paziente quando esprime voglia di combattere ancora contro la morte,ma anche desiderio di lasciarsi andare, bisogno di morte come fase vera da includere in quella vita che vuole riconoscere ancora come propria?.

Spesso sentiamo la necessità che la scienza del medico ci protegga oltre il ragionevole,sia l'ultimo potente baluardo contro la morte,la bandiera che issata in visibilità totale suggellerà il più esaltante patto che l'uomo possa fare con se stesso,l'impegno a non far morire mai .

Colpiti da sintomi noti di un dolore complicato - il rifiuto della morte e della sua verità ineludibile-scossi dalla certezza della perdita ,molti individui intensificheranno comportamenti di attaccamento,poichè se il dolore non è permesso e riconosciuto le cure possono essere distorte dal tentativo di salvare una speranza impossibile.Se lo scoramento rappresenta non la mancanza di speranza ma piuttosto il voler rimanere attaccati ad una forma di speranza che non c'è più,la sfida del fine della vita è giocata sulla possibilità di includere davvero la morte dentro la propria vita.

Se noi costringiamo i pazienti a rinunciare alla speranza di sopravvivere prima che possano permettersi di affrontare l'insondabile verità del loro dolore,finiamo per amputarli di una fase necessaria e delicatissima nella elaborazione della morte.

Spesso i medici sono inconsapevoli della loro paura della morte. Gli psichiatri ricevono una formazione rispetto agli altri clinici su quanto i loro sentimenti possano influenzare nel prendersi cura -il management del paziente- ma tutto questo poco o nulla si riferisce ai sentimenti sulla morte e sul morire.

Avere cura di pazienti che stanno morendo rappresenta una sfida perchè impegna a condividere l'esperienza di morte con i nostri pazienti: se ci permettiamo di esserci ci permettiamo di vivere la morte dell'altro in modo autentico, profondamente vicino allontanando la tentazione e la complicità di un costume culturale che collude col bisogno di negare un'esperienza profondamente soggettiva ed unica.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

L.Ancona, L'assistenza psicologica e spirituale:la verità di fronte alla morte, in www.psychomedia.it/pm/lifecycle/exitus/ancona.htm
A.Carotenuto,Sulla morte,Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria,nr.36-37,gennaio-agosto 1999,ppg.2/17,Roma
M.D.Sullivan,Hope and hopelessness at the end of life, Am.J.Geriatric Psychiatry 11:393-405, August 2003

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