di
Rita Farneti
Premessa introduttiva
Non ho che una guida sicura su cui possa contare ed è
la successione dei sentimenti che hanno contrassegnato la
successione del mio essere(..)Posso incorrere in omissioni
nei fatti,in trasposizioni,in errori di date,ma non ingannarmi
su quel che ho sentito, né su quello che i miei sentimenti
hanno indotto a fare (J.J.Rousseau)
----- o -----
La necessità per l'operatore sanitario di entrare
in contatto col vissuto della persona che si avvia alla morte
si collega ad un imperativo etico in una cultura occidentale
per lo più tanatofobica e fortemente asettica : pur
sostanziata di razionalità propria essa mantiene lo
sgomento davanti alla fine dell'umana esistenza,appalesando
la frequente "incapacità dei popoli più
industrializzati di recuperare" nel quotidiano "
l'intimo contatto con la natura e (
) con l'idea di morte".
La morte rappresenta l'invisibile certezza che scandisce "
l'incompiutezza del nostro stesso vivere " : percepita
come incombente ed ineluttabile è, al tempo stesso,
negata come prossima,poiché nella morte si declina
il paradossale ed incomprensibile divieto a "completarci",
ad " avere", ad" essere",a " sentire
tutto ciò che ancora sentiamo mancarci".
Ogni cosa di questo mondo ha inizio , durata e fine .
Comporta per l'homo sapiens, ulteriormente insapientito da
millenni di sua razionalità, la realistica presa d'atto
dell'impossibilità di essere ancora progettualmente
proprietario di un fluire del tempo senza pause e condizioni.
La rappresentazione della morte (come limite della vita)
alimenta ,forse, il vissuto legato all'incamminarsi su una
strada improvvisamente già segnata , col destino di
sprofondare in uno stato misteriosamente e realisticamente
contrario alla vita.
Guardando " in viso troppo direttamente ciò a
cui non ci si può opporre"si vive l'inquietudine
insaporita dalla consapevolezza di finire in "una non
vita, ancorati a ciò che non si è o al rimprovero
di ciò che non potrà cambiare,perché
è già avvenuto".
Se fino " all'ultimo momento la nostra vita" rimane
" contornata da affetti" e dunque sarà inutile
il rancore perché "stiamo prendendo ancora cose
buone dal vivere", né si dovrà "essere
malinconici" perché "la perdita del passato
non ci ha privati del piacere del presente", il pensiero
della morte traduce però la paura di un appuntamento
che si auspica continuamente rimandato,nell'ingenua ed inconsapevole
illusione di porre comunque tra noi e la morte" una certa
distanza ".
Pavese alludeva al pensiero della nostra morte come a qualcosa
" che ci accompagna/dal mattino alla sera", un sentimento
"insonne" e "sordo" ,tradotto anche in
" un vecchio rimorso/ o in un vizio assurdo".
La morte ,per la sua ineluttabile esistenza, avrà
democraticamente uno sguardo per tutti,pur vibrando negli
occhi di colui o colei che l'incontrerà.
Cardine della nostra realtà, rappresenta "lo
stigma della specie" , esprime la "perdita di una
condizione normale e sicura",abitata quotidianamente
ed ingenera la percezione anticipata del "frantumarsi
dell'individuo".Consegnata come estranea nel pensiero
di tutti i giorni e troppo pungente per non essere ignorata,
è vissuta con ambivalenza, paura,rifiuto e diniego.
Se in questa difficoltà come mortali con ignota data
di scadenza possiamo più o meno sostenerci l'uno con
l'altro, come singoli soffriamo la mortificazione del sentirci
inesorabilmente più fragili perchè esposti alla
verità della nostra esistenza. Epicuro, un secolo dopo
Socrate, scriveva essere una sola " l'arte del ben vivere
e del ben morire",consapevole "che non possiamo
rifarci isolatamente al morire senza considerare il vivere
che ne è il presupposto".
Se Epicuro attuava una provocazione nel ritenere che la morte
dovesse non riguardarlo,avendo in animo di pensarla non sua,
Heidegger considerava il commiato dalla vita come "possibilità,incondizionata
e certa,indeterminata soltanto rispetto al quando" .
Questi dunque i presupposti che costringono il genere umano
ad assumerla in proprio " in ogni istante".
Il lavoro quotidiano con il morente è arte ed impegno?
Prendersi cura di chi sta morendo esprime lo sforzo di ricongiungere
,"entro un orizzonte pratico",la rappresentazione
della morte con l'esiguità del tempo rimasto.
Il tempo riacquista per l'uomo una pienezza inconsueta perché
è toccato in ogni suo battito dalla "costante
imminenza della morte".E' tempo vissuto "entro il
limite ben congegnato dell'umana temporalità",
potentemente dilatato e in pari misura condensato nella fragilità
.Permette di leggere una frattura insanabile fra ciò
che appartiene alla vita come realtà e ciò che
appartiene all'esistenza come possibilità di morte.
Affermava Platone nel Fedone che " se riusciamo ad avere
dal corpo un momento di tregua e riusciamo a rivolgerci alla
ricerca di qualche cosa, ecco che,improvvisamente, esso si
caccia in mezzo alle nostre ricerche e, dovunque, provoca
turbamento e confusione e ci stordisce, si che ,per colpa
sua, non possiamo veder il vero.
Ma risulta veramente chiaro che se mai vogliamo vedere qualcosa
nella sua purezza dobbiamo staccarci dal corpo e guardare
con la sola anima le cose in se medesime(..)Tutti i nostri
progetti di vita,inevitabilmente superati dalla possibilità
che la morte" li interrompa impedendone la realizzazione"
,permettono all'uomo di non disperdersi nell'impersonalità
del "si ,del così si fa e così si dice."
La competenza, intesa come empatia ed abilità nell'approccio
emotivo con la persona che soffre ed è al termine della
propria esperienza di vita ,esalta nell'operatore sanitario
la capacità di tollerare il pensiero del morire, che
include la capacità di rappresentare anticipatamente
la propria morte e quella della persona che si sta assistendo.
E' una modalità di comunicazione che impegna a tutto
campo nella relazione con il morente e con il familiare che
sta subendo una perdita,oltre che imperativo etico essenziale
nel repertorio terapeutico di chi offre assistenza e cura
alla persona che soffre.
La competenza nella cura sanitaria permette di assicurare
coerenza e congruenza all'approccio terapeutico ,accompagna
ciò che si offre in modo confortante ed evita , per
quanto possibile , disagio nell'utente.
Una riflessione sulla competenza emotiva nella gestione di
morte e mortalità può consentire una riconsiderazione
di ostacoli, blocchi ed inceppature nella relazione terapeutica
per comunicare col morente su un piano di autenticità
ed offrire conforto e sollievo a chi sta soffrendo.
Se per La Rochefoucauld si può guardare alla morte
distogliendo lo sguardo,così come si fa col sole
come
se abbacinarsi di oscurità condensasse del buio gli
aspetti più temibili
per ognuno di noi la morte
rimane un tabù nel complesso difficile da esorcizzare.
La competenza alla relazione (Kaspers 1959) si basa soprattutto
sulla complessità e delicatezza a riconoscere ,accettare
e saper gestire i sentimenti controtransferali innescati dall'incontro
col morente(sovente paura, impotenza, percezione profonda
di vulnerabilità totale) senza svalorizzare l'importanza
di un contatto umano (fra umani).
L'operatore al quale capita di leggere sentimenti di angoscia
e paura (nel proprio paziente) , sovente anche alternati ad
una rassegnazione senza sconti, può percepire la delicatezza
di un contatto modulato a lenire un' assenza di speranza percepita
desolante .
Nella seconda metà del Novecento ,forse influenzati
dal libro della Kubler-Ross (1969)sulla morte e sul morire,
in molti corsi di studio riguardanti le professioni sanitarie
,specialmente nei paesi anglosassoni , si cominciò
a promuovere un contatto non più (e solo) con la realtà
di una morte biologica oggettivamente analizzata, ma anche
(e soprattutto) col vissuto evocato (nell'operatore) dal morente
(Barton 1972).
Vivere il sentimento di consapevolezza della propria mortalità,
bilanciando le non sempre consce istanze di diniego o di evitamento
, presenti nelle pieghe della rappresentazione del commiato
alla propria esperienza di vita , improvvisamente amputata
di progettualità perché la fine è sempre
anticipata dalla morte dell'altro , può consentire
un contatto con il sentimento del vivere attraverso la coscienza
della temporalità nel genere umano.
Una percezione , sovente anche troppo ( e facilmente) intellettualizzata
, che ,forse, maschera il bisogno inconscio di rifiutare un
appuntamento finale sempre più certo,dandogli scacco
attraverso la cura di un corpo garante di incontri rimandabili.
Talvolta,invece, la consapevolezza del nostro essere mortali
si nutre dell'onestà a riconoscere il rifiuto di non
mettere tra parentesi il nostro futuro decesso,nella speranza,
magari, di poterlo pensare alle nostre condizioni e,dunque,
ad arbitrio ed agio personali .
Per gli operatori sanitari la difficoltà maggiore è
rappresentata dalla comprensione emotiva della qualità
e densità del dolore di chi sta morendo : è
importante accompagnare la consapevolezza dell'incontro con
una morte vera , quella sorta di caos destrutturante che la
fine è spesso in grado di evocare in noi(Bertman 1991).
Gli operatori " alle prime armi "manifestano un
disagio maggiore nell'incontro con la morte: assumere per
la prima volta la temporalità dell'esistenza (e l'inevitabile
finitezza della vita) sembrerebbe provocare uno sconcerto
che disorienta l'azione stessa della cura (Kirchberg 1991).Al
contrario, in operatori "di più lungo corso"
le rappresentazioni della morte e della perdita appaiono accompagnate
da un disincanto benevolo che permette distacchi e commiati
nella logica di un destino comune percepito come umanamente
ed equamente condiviso.
Perciò nel concetto di competenza( potency) possono
essere riassunte le qualità di un approccio permeato
di forza e validità,soprattutto centrato sul paziente(Roos
2002).La competenza nella relazione con chi muore non solo
matura gli aspetti essenziali del repertorio terapeutico nel
caregiver ,ma chiama anche continuamente in causa il sentimento
del buon vivere e la saggezza nel distaccarsi dalla propria
esistenza mantenendo al sicuro ricordi e sentimenti significativi.
Tocca all'operatore costruire la possibilità di fare
appello alle altrui risorse interiori,accompagnando in modo
confortante e soccorrevole( Gamino 2012 ) ed evitando disagi
in modo adeguato ed opportuno(Gamino 2012).Il modello che
declina gerarchia nelle competenze dell'approccio alla morte
ed alla persona che muore è stato più volte
rivisitato, sottolineando le problematicità nella comunicazione
con il morente e nella relazione con la persona che soffre,
spesso veicolate da ( proprie) rappresentazioni della morte
e del morire. Ross(2002) ha identificato nella potency le
qualità necessarie per un intervento efficace,definendo
così l'azione emotiva ,l 'azione pragmatica ed il concatenarsi
di entrambe.In aggiunta alla conoscenza di base sulla natura
della perdita, percezione che ciascun operatore è in
grado di mettere a fuoco nel processo del commiato, Roos sottolinea
la valenza di sei specifiche qualità in grado di ottimizzare
la performance sanitaria e di favorire nell'interazione credibilità,affidabilità,vicinanza
emotiva e speranza di un buon contatto. Queste qualità
sono rappresentate dall' abilità a centrare il problema,dallo
spessore umano e professionale nel porsi obiettivi,dallo spirito
di confidenza non disgiunto da senso di obiettività,dall'accuratezza
percettiva ed empatica, dal rispettoso riconoscimento del
dolore del paziente,dalla competenza negli interventi terapeutici
essenziali. Le qualità del percepire in modo empatico
ed accurato e la giusta distanza dal dolore "riconosciuto"
rivestono una particolare importanza perché permettono
di sintonizzarsi su ciò che soggettivamente il paziente
prova,mantenendo sincronia nell'interazione.
L'accuratezza nel cogliere ogni aspetto emozionale nella
sofferenza è legata alla capacità di ascolto
dell'operatore. In una relazione di aiuto, in grado davvero
di soccorrere , l'ascoltare e l' essere ascoltati diventano
pietre angolari della comunicazione centrata sul paziente.
E'difficile immaginare una relazione di cura ove non ci sia
ascolto ed ove l'essere visti non passi attraverso l'ascolto.
Essere ascoltati ci permette di essere compresi in tutta la
nostra complessità ed anche completezza,evitando di
tagliare fuori la morte (Terror Management Theory),un modo
inconsapevole di voler guadagnare una sorta di immunità
dal tempo. La competenza emozionale implica la conoscenza
di sé e l'accettazione di sé come essere umano
che sbaglia ed ha limiti,richiede attenzione e controllo delle
emozioni sperimentate durante la presa in carico del paziente
,soprattutto quando ci si confronta con vissuti di paura,angoscia,odio
e profonda tristezza .
Anche se coloro che si occupano di pazienti in fin di vita
devono ogni giorno guardare alla morte, avendo in onere (
Kaspers 1959) la gestione di sentimenti controtransferali
potenti, è possibile favorire una quieta mitezza pur
nell'esanguità della vita.Anche se spesso congelare
il morente con la sua verità permette di salvare l'asetticità
del sistema nella cura sanitaria.
Tollerare intense emozioni scatenate dalla rappresentazione
della morte e della perdita non solo testa la qualità
della relazione ma consente di conquistare una disposizione
di maggior consapevolezza di sé nel lavoro di cura.
Sanders ( 1984 ) ha sottolineato la necessità di confrontarsi
non solo con l'impotenza esistenziale dopo la morte ma anche
con la vulnerabilità umana nell'addolorarsi per la
morte di un paziente. Dello stesso avviso è Bertman
(1991): gli operatori professionali devono per primi riflettere
sui loro lutti e capire come affrontare la perdita al fine
di entrare in empatia vera con il dolore delle persone, per
rafforzare un incontro con una morte ri-conosciuta,per comprendere
e contenere la angoscia , per essere sempre più centrati
e poter elaborare , nel lutto, le identificazioni fatte con
chi ha sofferto.
Nella morte dell'altro incontro la mia morte, senza sconti
ed infingimenti,incontro la mia mortalità e devo assumente
come certa la temporalità dell'esistenza che include
come sicuro il momento non noto del mio decesso.
Mantenere competenza emotiva esige applicazione di strategie
di autoconoscenza ed auto protezione, fondamentali entrambe
per supportare in modo sempre più professionale un
soggetto che si sente oggetto della morte. La competenza emotiva
che ciascun operatore sperimenta nel vissuto della relazione
con l'utente consente di sopportare i rigori emotivi del processo
terapeutico,richiede resilienza, adeguate strategie nella
protezione di sé e nel confronto con i colleghi.
Saper gestire sentimenti, ricordi e rappresentazioni ,nonché
vissuti inerenti la morte ed i propri morti, soprattutto,
quando la morte è tragica, traumatica ,orripilante
e violenta,agghiacciante, rassicura l'operatore sull' adeguatezza
delle proprie risorse ,gli permette di tollerare la densità
del dolore nel silenzio e di mantenere una lucidità
ed responsività terapeutica centrate su quello che
sta accadendo.
Questo comporta accettare la biografia delle tante piccole
e grandi morti che costellano la propria esperienza di vita
ed incarna la fatica di comprensione ed accettazione della
nostra complessa interiorità .
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